“Che cosa è mai l’uomo, perché Tu lo consideri tanto
e un figlio d’uomo perché Tu scenda a visitarlo?”
Queste parole sentii dire al mio cuore quando lo vidi per la prima volta nella sua piccola sala in una mattina di sole e di vento, a Delfi.
Quell’indimenticabile giorno, dopo l’ascensione fino al tempio del Misterioso doveva chiudersi nella gloria di un plenilunio perfetto, in una veglia piena di grazia con qualche amico, partecipe e silenzioso alla fonte Castalia, violando le interdizioni, in un silenzio che il sussurro del minuscolo rivo e il sommesso parlare degli allori e del vento, non violandolo, consacravano, e che il suono domestico di qualche capra insonne rendeva antico, accogliendoci nel tempo lontano, del dio.
Ma Delfi, nella intatta memoria del cuore, è Lui, il ragazzo di Gela, quando Gela, oggi violata, era greca e civile. È l’Auriga che è appena pronto a sorridere, come vedesse con quegli occhi senza orgoglio i suoi amici lì intorno, e pensasse al ritorno alla sua spiaggia di casa, al suo mare lontano e anch’esso greco, alla festa che gli preparavano di carri,di fuochi e di canti.
Vincitore alle corse, non ha più il carro e i cavalli, che immagino svelti e obbedienti.
Allevati in stalle divine, dovevano essere gli antenati di quelli che Costantino tolse al tempio di un dio di cui si sentiva rivale, per esibirli a sua gloria nell'ippodromo della rifondata Bisanzio e che i Veneziani deportarono alla loro laguna, orgoglioso bottino di una piratesca crociata, aggiogandoli al carro di un Dio più grande di Apollo, quella basilica d'oro che i furti regalarono al mondo.
(Oggi anche da quella facciata sono stati rimossi, riparandoli dalle aggressioni dei nuovi nemici che corrodono le dorature e i metalli, insieme ai pensieri degli uomini, esercito senza bandiere messo insieme dalla stoltezza di una civiltà che non distingue fra la plastica e gli ori, non venera la Bellezza, serve senza ribellioni gli dei bugiardi dell'avidità e inalbera, al posto di quei cavalli divini, una contraffazione).
Anche un braccio ha perduto, mutilato anche lui dall'aggressione di un barbaro, magari cristiano, ma anche così, offeso e appiedato, è lui la mia Grecia, l’immagine definitiva della grandezza dell’uomo, la corporea rivelazione di quella nobiltà, di quella“ dignità dell'umana sostanza” così “mirabilmente fondata” dalle Mani che impastarono Adamo e “ancor più meravigliosamente restaurata” quando, il Generato prima dei secoli, quella nostra sostanza ha voluto far propria, associandola alle sorti di Dio.
Quella prima mattina io mi trovai in ginocchio, piangendo, davanti a lui, vergognandomi un po’ fra i turisti distratti e fingendo di esaminare i suoi piedi (e davvero quei piedi dovremmo guardarli in ginocchio, per vederne la tensione appena accennata ma così vera, come se il carro dovesse girare e il suo auriga equilibrarsi, con quieta eleganza).
Ed era un pianto di pentimento – io che non piango sui miei peccati – confrontando la pura bellezza di quella figura con il volto che vede il Signore, quando mi guarda, così mutato e ridisegnato dalle mie colpe, così lontano dalla Somiglianza, come i greci cristiani chiamano la condizione dei santi, fedeli al disegno con cui li aveva disegnati l'Amore.
Ho amato quel nastro che lo incorona annodandosi alla nuca gentile, come il diadema di un giovane faraone, quelle guance ancora ignare del rasoio che ce l’offrono, più che il ritratto di un atleta già esperto, come l‘incarnato ideale di una adolescenza umile, consapevole e coraggiosa, di quella precoce “senectus“ che gli antichi veneravano nei fanciulli.
E quella mano che gli è rimasta, innocente e virile, capace di equilibrare i cavalli con le briglie della Prudenza, come ci insegnerà poi Platone e ci ripeteranno i santi dottori.
Penso a lui, ogni volta che un salmo mi ricorda che l’uomo è stato fatto grande e glorioso, “solo di poco inferiore agli angeli “ e signore delle creature di Dio, e che Dio “lo visita “ come un amico innamorato.
Penso alla sua vittoria, che è la nostra, possibile sotto le stelle se restiamo anche noi come lui sapienti e non vili, modesti e fedeli, nella nostra corsa sotto gli occhi del dio.
Quando lo ricordo, così diritto e sicuro in quella talare sacerdotale che è semplice come la colonna del tempio del suo Signore, ritrovo nella memoria le parole del Libro dove Dio dice che pianterà il giusto come il picchetto irremovibile della tenda della Sua coabitazione con gli uomini: e mi afferro anche a lui, perché la mia instabile tenda di nomade non me la sradichi il vento.
Il salmo ottavo, che ho sempre letto agli amici davanti all’Auriga.
O Signore nostro Dio
quanto è glorioso il Tuo Nome su tutta la terra!
La Tua grandezza vorrei cantare nei cieli
balbettando come un bambino e un lattante!
Certo, quando guardo il cielo che le tue dita han tessuto
e la luna
e le stelle che vi hai incastonato
io mi domando:
Ma che cosa è mai un uomo perché Tu pensi a lui
un figlio d’uomo
perché Tu te ne curi?
Eppure Tu lo hai fatto solo di poco inferiore agli angeli,
lo hai incoronato di onore e di gloria
e lo hai fatto signore di tutte le opere delle Tue mani
mettendole tutte sotto i Tuoi piedi:
tute le greggi e gli armenti
e le bestie selvatiche
e gli uccelli dell’aria e i pesci del mare,
le creature che solcano i sentieri del mare.
O Signore nostro Dio
Quanto è da lodare il Tuo Nome su tutta la terra!