Non ho mai amato i gatti, e loro non amano me. Ma ce n'è uno nel museo di Rabat che si è conquistato col suo solo apparire una mia arcana venerazione.
Si aggirava con padronale disinvoltura in quelle sale malinconiche e maltenute, dalle quali avremmo l'obbligo di sottrarre alcune opere meritevoli di più rispettose attenzioni, fra le quali uno straordinario cane di bronzo giustamente arrabbiato e aggressivo.
Quel gattone fa la guardia ad un principe, la cui scoperta è diventata un incontro, di quelli che mi arricchiscono misteriosamente la vita.
Di lui mi ha detto qualcosa la storia, con le insoddisfacenti notizie che ho messo insieme dai libri appena tornato a casa.
Figlio di re, era stato ospite, forse ostaggio di Augusto, a Roma, dove aveva a lungo e proficuamente studiato, preparandosi ad essere quello che sarebbe poi diventato nella sua Mauritania: un re saggio, ed un letterato erudito che meritò una sua fama.
Ma basta guardarlo per sapere che era un figlio di re.
In quel capo leggermente inclinato come per un momento di pensosa stanchezza il volto è perfetto, di una bellezza che fa quasi male; le labbra appena piegate per qualche cosa che è tra una malinconia ed un presagio, tra un rammarico ed un sogno. Labbra ancora ignare di baci, di una sensualità ancora vergine e già perentoria.
Anche la fronte, appena adombrata da un segno leggero, sembra custodire il quieto presentimento di un male, o forse una precocità di pensieri che lo avrebbe portato ad essere il re che avrebbe onorato la sua Africa e Roma.
Il capo dai capelli ordinati come un compatto lavoro di lana e di un rigoglio quasi vegetale lo cinge una lamella leggera di metallo, allacciata alla nuca dal nodo di un nastro come il diadema di un faraone (e un po’ lo sarebbe poi stato davvero, sposando la figlia dell’ultima regina di Egitto).
Vorrei essergli stato contemporaneo per consolarlo di quella mestizia segreta e forse solitaria che la perizia di uno scultore ignoto ci confida nel bronzo; e contemporaneo gli divento, raggiungendolo oltre i confini del tempo in una sodalità discreta e fedele anche se tardiva; come gli fossi stato suddito, o amico.
Ormai lo avrò nel mio cuore come il mio Auriga di Delfi e il mio ragazzo di Istambul che così pochi conoscono,ai quali offro il tributo umile del ricordo.
A questi tre, reclusi in lontani musei, devo il vulnere inguaribile e dolce che la bellezza quando è così pura ha il potere di infliggere al cuore; e ne sono riconoscente.
Accanto a loro onoro, ospiti nella mia mente, altre epifanie che la Grecia ha acceso per noi per far meno paurosa la notturna fuliggine di un tempo senza grazia e disamorato.
Penso al Dioscuro di Mozia, che tale è per me, né sacerdote né atleta, per la veste che lo ricopre e lo svela; per quell'alta cintura che è uguale a quella d'oro che Giovanni vide al petto del Figlio dell'Uomo trionfatore nei bagliori dell'Apocalisse; per l'attitudine che mi sembra quella di un auriga appena sceso dal carro, per la calotta non scolpita del capo che probabilmente coronava l'aureo berretto frigio dei Fratelli Soccorritori.
Certo costui, che più che autorizzarmi una tenerezza mi induce ad una reverenza anche un po’ intimidita.
Penso all'Apollo Castigatore di Veio che davvero “scende come la notte”, con quel passo deciso e quel sorriso senza perdono sulle stoltezze degli uomini.
Penso al Signore invincibile dell'armonia che sul frontone di Olimpia sottomette col braccio imperioso e l’occhio dominatore le vane agitazioni dei mortali.
Penso all'arciere perfetto scattante ed immobile che mira al nemico nel frontone di Atena Silente nel museo di Monaco dove sonnecchia vigile il fauno indecente.
Penso alla cavalcata di quei cavalieri ateniesi che, rimossi dalla grande festa del Partenone e deportati al nebbioso Tamigi, fanno ancora risuonare degli zoccoli dei loro cavalli quella sala di Londra, onorando con la loro giovinezza immortale le grandi Figure in esilio dei loro dei, che recitavano il mito sui frontoni del Tempio.
Al mio giovane re penserò anche pregando, poiché se l’Auriga è un parametro più che un ritratto, lui e il mio scolaro di Istambul sono stati vivi; e vivi sono ancora,da qualche parte. Ed il mio cuore può raggiungerli – e amarli.
Lo penserò in quella teca di vetro appannato in quel museo nel quale è recluso, dove gli fa compagnia quel gattone nero con due accesi smeraldi per occhi, che ha tutta l'aria di discendere dalla leonina Dea Gatta del Nilo, e di essere venuto a Rabat per stare vicino al suo re, traversando con felina indifferenza i millenni.
A lui lo affido, io che i gatti non amo, convinto come sono che gli resti contemporaneo e fedele.