TIZIANO A SAN NAZARO
In alto c'è un ragazzo che Tiziano ha preso da una calle veneziana e ha vestito da angelo, spettinandogli un po' i capelli dorati, per fargli fare
nel quadro la parte di Gabriele.
Consapevole del suo ruolo, guarda Colei alla quale l'arcangelo era stato mandato con un sorriso appena accennato, un po' complice, rispettoso e felice; e snoda il nastro del saluto fatidico per farne leggere a noi le parole.
La sua tunica, già candida di fulgori pasquali, sembra cantare su silenziose cadenze di luci il fervore di una fuga di voci.
Di fronte a lui la Vergine sorpresa in preghiera piega il capo al consenso che rimedia la colpa di Eva.
Non è più la fanciulla quasi incorporea che incantava l'Angelico, ma è già florida donna, di una consistenza corporale che prelude alle Madonne casalinghe e nostrane dei pittori bresciani. Composta nella sua quieta
umiltà, e nemmeno tanto turbata dall'imprevedibile annuncio come nei quadri di tanti altri pittori, è già regale, Domina e Madre
La luce che danza sulle braccia dell'angelo illumina in basso le armature dei due santi soldati titolari della basilica insigne: Nazaro e Celso,
che introducono alla visione il committente Altobelllo, che volle il polittico
per la sua chiesa bresciana.
Il grande umanista, preposito qui e vescovo a Pola, dimessi i lussi episcopali sta in ginocchio in preghiera, con una umiltà che qualcuno potrebbe pensare simulata, visto il personaggio, ma che era l'attitudine
prescritta ai donatori di quadri, che qualche santo presentava alla Madonna o al Signore.
La stessa luce che accende riflessi sull'armatura del martire, che è poi quella di un capitano del 500, ne accende sulla corazza di uno dei soldati di guardia, che il terremoto pasquale ha strappato al torpore dell'inutile veglia.
( Quei riflessi Tiziano li ha sorprendentemente dipinti come se avesse spremuto il bianco da un tubetto, come avrebbe poi fatto Van Gogh.)
A destra uno stupefacente San Sebastiano piega la sua perfetta bellezza
a un martirio che sembra senza dolore, il corpo possente ferito da un'unica freccia che nemmeno lo insanguina.
(Il severo Mantegna, a Venezia, lo aveva tutto trapassato come un puntaspilli da una furiosa tempesta di dardi.)
Sotto la sua gamba piegata, appena visibile, c'è un angiolino che deve
essere il fratellino di Gabriele, biondo e bianco anche lui, che si ingi-nocchia a medicare la coscia infetta di San Rocco, che si piega dolorante sopra di lui.
Sono i due santi invocati per secoli contro il flagello della peste, sempre appaiati dalla devozione popolare in innumerevoli affreschi votivi sulle pareti di parrocchie pievi e cappelle.
(Che in questa tavola Sebastiano prevalga tanto su Rocco, appena citato, è dovuto certo al fascino che la figura del primo - tanto spesso
pretesto in quei tempi per mettere in chiesa nudi di atleti - doveva avere sul pittore, fra l'altro intento a rispondere a suo modo alla provocazione del Laocoonte, la cui prodigiosa scultura scoperta da poco incantava gli artisti, ma la cui anticlassica agitazione lo infastidiva. Tanto che ne aveva disegnato delle caricature, sostituendo ai personaggi del tragico evento
tre scimmie.
Ma da quel capolavoro era rimasto in qualche modo contaminato, visto che quelle attitudini che aveva criticato come smodate le ritroviamo nella contorsione del martire e nello slancio obliquo del Risorto..
Quasi invisibili anch'esse, nell'ombra, sono le donne che vengono con
gli aromi al sarcofago, che sostituisce nella nostra pittura la grotta dei bizantini, più fedeli ai racconti evangelici.
Alle loro spalle, dietro il profilo della città, sfiorando appena uno scarno albero di fico che in tanti quadri del tempo ricorda la colpa di Adamo,le prime deboli luci di quel “primo giorno dopo il Sabato” che doveva essere il nuovo Primo Giorno del mondo.
E contro quell'albeggiare ancora incerto c'è Lui, investito da quella stessa luce che danza sull'angelo e si riflette sulle armature, che non è quella incerta del giorno terreste ma è quella del Giorno eterno di Dio.
C 'è Lui, bello come un dio greco, di una gloria corporale che solo il Rinascimento, tornato greco, osava affermare, testimoniando un Dio che non ha orrore della carne ma se ne appropria, soffrendone la mortalità e facendone il Suo bottino di Vincitore.
Trionfante come il Gigante solare dei salmi, Campione che ha ucciso la Morte, alza il vessillo di una vittoria che è nostra, poiché in Lui è la nostra morte che muore, la nostra carne che vince, la nostra carne che ascende, la Sua risurrezione garantendo la nostra, “quando il nostro corpo umiliato sarà riformato, e configurato al Suo corpo glorioso”.
In alto c'è un ragazzo che Tiziano ha preso da una calle veneziana e ha vestito da angelo, spettinandogli un po' i capelli dorati, per fargli fare
nel quadro la parte di Gabriele.
Consapevole del suo ruolo, guarda Colei alla quale l'arcangelo era stato mandato con un sorriso appena accennato, un po' complice, rispettoso e felice; e snoda il nastro del saluto fatidico per farne leggere a noi le parole.
La sua tunica, già candida di fulgori pasquali, sembra cantare su silenziose cadenze di luci il fervore di una fuga di voci.
Di fronte a lui la Vergine sorpresa in preghiera piega il capo al consenso che rimedia la colpa di Eva.
Non è più la fanciulla quasi incorporea che incantava l'Angelico, ma è già florida donna, di una consistenza corporale che prelude alle Madonne casalinghe e nostrane dei pittori bresciani. Composta nella sua quieta
umiltà, e nemmeno tanto turbata dall'imprevedibile annuncio come nei quadri di tanti altri pittori, è già regale, Domina e Madre
La luce che danza sulle braccia dell'angelo illumina in basso le armature dei due santi soldati titolari della basilica insigne: Nazaro e Celso,
che introducono alla visione il committente Altobelllo, che volle il polittico
per la sua chiesa bresciana.
Il grande umanista, preposito qui e vescovo a Pola, dimessi i lussi episcopali sta in ginocchio in preghiera, con una umiltà che qualcuno potrebbe pensare simulata, visto il personaggio, ma che era l'attitudine
prescritta ai donatori di quadri, che qualche santo presentava alla Madonna o al Signore.
La stessa luce che accende riflessi sull'armatura del martire, che è poi quella di un capitano del 500, ne accende sulla corazza di uno dei soldati di guardia, che il terremoto pasquale ha strappato al torpore dell'inutile veglia.
( Quei riflessi Tiziano li ha sorprendentemente dipinti come se avesse spremuto il bianco da un tubetto, come avrebbe poi fatto Van Gogh.)
A destra uno stupefacente San Sebastiano piega la sua perfetta bellezza
a un martirio che sembra senza dolore, il corpo possente ferito da un'unica freccia che nemmeno lo insanguina.
(Il severo Mantegna, a Venezia, lo aveva tutto trapassato come un puntaspilli da una furiosa tempesta di dardi.)
Sotto la sua gamba piegata, appena visibile, c'è un angiolino che deve
essere il fratellino di Gabriele, biondo e bianco anche lui, che si ingi-nocchia a medicare la coscia infetta di San Rocco, che si piega dolorante sopra di lui.
Sono i due santi invocati per secoli contro il flagello della peste, sempre appaiati dalla devozione popolare in innumerevoli affreschi votivi sulle pareti di parrocchie pievi e cappelle.
(Che in questa tavola Sebastiano prevalga tanto su Rocco, appena citato, è dovuto certo al fascino che la figura del primo - tanto spesso
pretesto in quei tempi per mettere in chiesa nudi di atleti - doveva avere sul pittore, fra l'altro intento a rispondere a suo modo alla provocazione del Laocoonte, la cui prodigiosa scultura scoperta da poco incantava gli artisti, ma la cui anticlassica agitazione lo infastidiva. Tanto che ne aveva disegnato delle caricature, sostituendo ai personaggi del tragico evento
tre scimmie.
Ma da quel capolavoro era rimasto in qualche modo contaminato, visto che quelle attitudini che aveva criticato come smodate le ritroviamo nella contorsione del martire e nello slancio obliquo del Risorto..
Quasi invisibili anch'esse, nell'ombra, sono le donne che vengono con
gli aromi al sarcofago, che sostituisce nella nostra pittura la grotta dei bizantini, più fedeli ai racconti evangelici.
Alle loro spalle, dietro il profilo della città, sfiorando appena uno scarno albero di fico che in tanti quadri del tempo ricorda la colpa di Adamo,le prime deboli luci di quel “primo giorno dopo il Sabato” che doveva essere il nuovo Primo Giorno del mondo.
E contro quell'albeggiare ancora incerto c'è Lui, investito da quella stessa luce che danza sull'angelo e si riflette sulle armature, che non è quella incerta del giorno terreste ma è quella del Giorno eterno di Dio.
C 'è Lui, bello come un dio greco, di una gloria corporale che solo il Rinascimento, tornato greco, osava affermare, testimoniando un Dio che non ha orrore della carne ma se ne appropria, soffrendone la mortalità e facendone il Suo bottino di Vincitore.
Trionfante come il Gigante solare dei salmi, Campione che ha ucciso la Morte, alza il vessillo di una vittoria che è nostra, poiché in Lui è la nostra morte che muore, la nostra carne che vince, la nostra carne che ascende, la Sua risurrezione garantendo la nostra, “quando il nostro corpo umiliato sarà riformato, e configurato al Suo corpo glorioso”.