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Il Bello e le bestie

Serie

Riflessioni

Descrizione

Partendo da un'esperienza in spiaggia, riflessione sul Bello e Brutto morali.

Homo, cum in honore esset, non intellexit, comparatus est iumentis insipientibus, quae pereunt. (salmo 49)


L'uomo non si rese conto in quale condizione di onore fosse stato posto, ed è diventato insipiente come il bestiame destinato al macello.


Ma posso anche tradurre:


“quando raggiunge una posizione onorevole perde la testa”...)


Sono pensieri che mi sono venuti in tre giorni goduti sulla costa di Trieste,  respirando aria di mare e leggendo, senza rischiare le ossa su sassi scivolosi e senza scorticarmi al sole.


Ma non era solo la ragionevole prudenza di un novantenne a tenermi seduto all'ombra – e vestito.


Nelle mie rare incursioni sulle spiagge mi ha sempre offeso il cattivo gusto di incivili che esibiscono sconce obesità da baraccone, deretani impudenti, carni sfatte e cascami di pelli malaticce, in un malinconico sabba in onore della Bruttezza, usurpatrice Signora del nostro tempo senza Dio.


Sono condizioni che, una volta vecchi, ci umiliano più o meno tutti, in casa nostra, ma che avevamo imparato a non esibire a improbabili estimatori. Quando siamo vecchi, o malati, che poi Cicerone ci dice che e' la stessa cosa, col suo “Senectus ipsa morbus”


E questo è il punto.


I ragazzi in Grecia si allenavano e gareggiavano nudi, ma adulti e vecchi andavano attorno vestiti.


Le immagini del Rinascimento ci documentano una moda giovanile che con quelle cosce più dipinte che calzate e quelle braghette cosi' esplicite imbarazza un tantino perfino noi, di buona bocca come siamo; ma i loro papà e i loro maestri indossavano abiti castigatissimi,


Non solo Dante, magari non casto ma contegnoso, ma nemmeno quel disinibito di Boccaccio.


E non perché fossero spaventati dai fuochi di Savonarola, ma per semplice buon gusto.


Quelle civiltà condividevano un senso della vita che era il frutto di un fardello di cui noi siamo orgogliosi di esserci liberati, che era poi Il Buon Senso.


Una saggezza che non si imparava a scuola, per la quale – o per la carenza della quale - un paesano analfabeta poteva essere “sapiente” più di un plurilaureato cretino, come del resto è tuttora verificabile.


Senza riferirsi alla Bibbia, sapevano che la vita ha i suoi tempi diversi e che è stupido non tenerne conto.


Sapevano che davvero “Per tutto c'è il suo momento,


un tempo per ogni cosa,


un tempo per nascere e un tempo per morire


un tempo per piantare e un tempo per sradicare


un tempo per uccidere e un tempo per curare


un tempo per demolire e un tempo per edificare


un tempo per piangere e un tempo per ridere


un tempo per il lutto e un tempo per la festa


un tempo per disperdere e un tempo per raccogliere


un tempo per abbracciare e un tempo per separarsi


un tempo per guadagnare e un tempo per perdere


un tempo per conservare e un tempo per gettare


un tempo per stracciare e un tempo per cucire


un tempo per tacere e un tempo per parlare


un tempo per amare e un tempo per odiare


un tempo per la guerra e un tempo per la pace.”


(Qoelet, 3)



E sapevano che c'è un tempo in cui si può anche andare in giro nudi e un tempo in cui non si va attorno in mutande.


Una  volta, magari, di un povero diavolo, si diceva che era una persona “di criterio”.


Il criterio era la capacità di scegliere, tra le cose fattibili, le cose da fare. L'averla perduta ci fa somigliare davvero a quei “iumentis insipientibus” di cui parla il mio salmo.


Perduta quella, tutte le cose della vita si confondono, in un pasticcio che, persi i sapori della Sapienza e la capacità di riconoscerli (“recta sapere”), troviamo magari gradevole ma è mal cucinato – e velenoso.


Incantati come polli davanti alle meraviglie delle nostre tecnologie (e meraviglie lo sono davvero) abbiamo imparato che tutto, o quasi, sempre e per tutti è diventato possibile.


E a scegliere tra le cose fattibili abbiamo abdicato.


Ciò che ci è tecnicamente possibile ha nella sua stessa possibilità la sua ragione morale, sufficiente a legittimarne la prassi.


La prestazione del mezzo ha reso superflua l'individuazione di un fine.


Così calciatori senza gambe e corridori senza piedi ci mostrano quanto una tecnologia può allearsi beneficamente con una sollecitudine alla quale siamo tutti obbligati, garantendo a molti dignità e gioie una volta negate.


Ma se la stessa tecnologia mi fornisce gli strumenti per realizzare la versione “laica” e anestetizzata della Buona Morte, diventa pericolosa, non per sé stessa ma per l'uso che posso farne.


Uccidendo un altro – o me stesso – per eliminare delle sofferenze che ritengo inutili, rischio di applicare, a me e al prossimo, convinzioni mie circa un senso o meno del dolore, o circa una continuità o meno di una vita oltre la morte, o sull'improbabile sopravvivenza di un Dio che ho dichiarato morto, alle quali ho diritto ma che non posso contrabbandare come sicure.


Tornando alla mia spiaggia, mi veniva in mente che una volta ci dicevano che dei santi, avevano cominciato il loro cammino chiedendosi:


”si isti et istae, cur non ego?” Se ce l'han fatta loro perché io no?


Oggi nessuno è così sciocco da invidiare vergini e martiri, così le signore che con le loro impudicizie hanno ridotto il mio albergo a un gymnasium di zombi -


e i signori loro compagni - si chiedono: Perché devono andare in giro nudi


solo i ragazzi? Perché noi no?


 


Così ho visto carni insane di signore straripare come lava attorno a poltroncine traballanti, magrezze che Hitler poteva ottenere solo dopo anni di


cure nei lager; e addomi una volta maschili franare su mutandoni sventolanti


che dovrebbero custodire tesori che si indovinavano deludenti.


(Posso comprendere la legittima insoddisfazione di tante partners;


ma era necessario che ne fossi informato io?)


 


Naturalmente non credo che tanta giovanile disinvoltura li induca a esibirsi


così conciati al personale di casa. L'ambiente era riservato, la clientela non pareva di portinaie e di idraulici, convenientemente ospitati nelle zone “libere”


della spiaggia. E mi è venuta una gran voglia di obbligare i miei zombi


a celebrare processi in mutande, a fare nudi il giro dei reparti in clinica;


e a presiedere così smascherate cene esclusive di beneficenza, in qualche


circo di amiche mordaci.


        


Perché io no? Devono essere liberi solo i ragazzi?


 


E allora viva la libertà!


Tanto più che quella di andare attorno in mutande rischia di essere


l'unica libertà che qualcuno di quei signori si è ridotto a rivendicare,


viste le pieghe alle quali si è esercitato per tutta la vita, in società


e in casa propria.


 


Stendhal ha scritto una volta che “il cattivo gusto conduce al crimine”.


Un mio vecchio parroco coltissimo e umile (le due cose andavano insieme)


che manteneva in segreto dei ragazzini figli di nessuno, mi diceva che


li portava tutte le settimane da un antiquario, a una mostra o a sentir musica,


perchè apprendendo il gusto del Bello si attrezzassero al discernimento


del Bene.


E davvero uno che è affascinato dalla Bellezza e infastidito dal Brutto sviluppa quel “senso” naturale che ci induce da bambini a sentire bello il bene e brutto il male, prima che i “grandi” ce ne privino.


 


Ma io mi chiedo anche se il rapporto tra il cattivo gusto e il Male non può


essere rovesciato: se il cattivo gusto, oltre a condurre al Male, non ne è 


il segno e il frutto.


 


Penso al “crimine” che nessun testo giuridico contempla, che è l'abdicazione alla conoscenza – alla coscienza - di noi stessi, alla consapevolezza della nostra relazione con il mondo, con il prossimo, con il tempo – magari con Dio - e della responsabilità che rende benefica la nostra libertà.


Penso a quel “Conosciti!” dei greci, monito fondante di una saggezza


alla quale dobbiamo attenerci, per non disperderci come “pecore matte”


e non ridurci a bestiame da macello.


 


Non ci ricordiamo più – e non lo rimpiangiamo – dell'onore nel quale Dio


ha posto l'uomo, facendolo “solo di poco inferiore agli angeli”, come


i Salmi dichiarano e come nel museo di Delfi il piccolo Auriga, pagano e ignaro di Scritture, conferma, con la sua gentile e definitiva autorevolezza. 


(E pensare che veniva da Gela! Il che potrebbe indurci a qualche riflessione


sul “progresso” di cui siamo tanto fieri.)


 


Quelli di noi che ebbero la fortuna di andare a scuola quando la scuola


insegnava (noi vecchi e qualche privilegiato ragazzo) ricordano il calvario


di quegli esercizi di analisi logica che ci facevano odiare insegnanti


impietose che ci infarcivano di latino come polli; ma ci siamo poi accorti


che erano fatiche che davvero “ci esercitavano” alla individuazione delle


relazioni, alla valutazione e alle scelte, ben oltre le trappole dei testi in analisi,


addestrandoci alle scelte della vita.


 


Ma poi, in nome del “Tuttofacilepertutti” e del “Dirittoaldiplomasenzastudiare”


il latino è finito nei cassonetti con i cibi scaduti (lingua “morta” anche lui,


come Dio), l'insegnare è stato screditato come violenza, promovendo


una ignoranza e una conseguente insipienza che non ci allarmano nemmeno più, visto che sono epidemiche.


 


Siamo talmente confusi che non ci rendiamo più nemmeno conto che tra quei tempi di cui ci parla la Bibbia e dei quali aveva esperienza l'illetterato, c'è anche il tempo della vecchiaia - se ci arriviamo – e il tempo del morire.


Della vecchiaia ci illudiamo di liberarci fingendoci giovani, e cambiandole il nome ( la “terza età.”...e la quarta e la quinta?)


Non nominandola crediamo di annullare la morte. 


Nessuno più “muore”, per la ridicola reticenza a chiamare con il loro


nome le cose, grazie alla quale un “videoleso” ci vedrebbe un pochino più


di un cieco; ed io oggi, scolaro, non sarei più l'asino che ero, ma sarei “diversamente bravo”, consolando papà e mamma ai colloqui


coi professori.


 


Uno è scomparso (finendo dove?), un altro ci ha lasciato (per fuggire con chi?), un altro si è spento (e magari non era nemmeno una gran luce),


un altro è mancato. Ma non è morto nessuno.


 


Così, se Agostino dissuadeva da eccessive pompe funebri più godibili


dai vivi che benefiche per i morti, a noi basta come “solacium” la 


smemoratezza.


Tanto più che pare che la morte non abbia niente a che fare con noi che sopravviviamo - e nemmeno con quelli che muoiono. 


 


La signora che negava disinvoltamente la morte dicendo “quando ci sono io la morte non c'è, quando c'è la morte non ci sono più io” affermava una sua fede, non invidiabile, ma alla quale aveva diritto, ma non mi comunicava


qualcosa di certo.


Se uno scienziato rivendica la specificità di fondarsi sulle verifiche, prima di affermazioni del genere sarebbe prudente intervistare qualcuno che tornando dalla morte ci raccontasse se e come ci si è trovato.


Magari la signora stessa, visto che adesso lo sa.


 


(Pare che Uno ne sia davvero tornato, ma non possiamo tenerne conto visto che di solito non ne torna nessuno...Prezioso esempio dell'uso irragionevole che facciamo della ragione.)


 


E torniamo al Bello e alle bestie.


Dostoevski scrisse che “la bellezza salverà il mondo”.


Sono parole che oggi è di moda, soprattutto nella Chiesa, attribuire  


all'uno o all'altro personaggio, ma restano sue; e restano vere.


 


E io credo che si riferiscano proprio alla Bellezza nella sua epifania


più elementare: quella estetica, senza tirarla in implicazioni teologiche.


(Tra un valore e l'altro non sono mai riuscito a immaginarmi un abisso).


 


Per quell'altra maestra di civiltà per cui abbiamo redatto il certificato di morte,


la lingua greca, Bello e Buono si dicevano con la stessa parola;


e nella Bibbia l'Eterno parla nella Sua lingua allo stesso modo.


 


                                                                                                                                                      


Al tramonto di ogni giornata lavorativa è tutto contento di quello che ha fatto,


che trova bello e buono insieme.


Può capitare a un pittore (qualche volta mi è capitato) di essere contento


di un quadro. Se non è orgoglio è gratitudine.


 


Il Pastore è Buono e Bello insieme. E' Bello perché e' Buono.


Dirlo Bello può sembrarci un po' pagano, ma il Vangelo non ha queste timidezze.


 


E' strano quanto pochi si accorgano della Bellezza che invade tutta la


Bibbia, coll'irrompere dell'Improbabile, con storie che sembrano raccontate


da un cantastorie un po' suonato, che intronizza sull'Egitto un ragazzo venduto schiavo dai fratelli, dei quali appena può si vendica con un banchetto di perdono; con vegliardi che generano da spose sterili discendenze senza


fine, povere donnette che mettono al mondo guerrieri, contadini che


strapazzano satrapi, vecchi collerici che incendiano sacrifici inondati d'acqua, e inceneriscono schiere di rivali, o chiamano orse a sbranare dei ragazzini insolenti, ma poi mantengono vedove ridotte alla fame dalle carestie


e guariscono nababbi lebbrosi senza accettare un soldo; che mangiano quando un corvo gliene porta; e quando vanno in pensione il Padrone li


manda a prendere da una carrozza di fuoco tirata a un equipaggio delle


Sue scuderie, in un trionfo di lampi. (Trattamento certamente meritato ma che ci sembra un po' strano, come del resto è strano tutto quello che fa,


se è vero che tiene come in un acquario privato, nei più riposti abissi,


il Leviatano mostruoso “per giocarci ” - come un bambino col gatto - 


con tutto il da fare che ha.)


E quel ragazzino di Betlemme che sta dietro le pecore, rosso di capelli, per il quale sembra prendersi una cotta, che adotta come Figlio, unge re di nascosto e al quale perdona tutto.


E poi montagne che danzano, colline che saltano stillando profumi, parole appena udibili di fiati notturni, rocce che si incendiano, uragani infuriati,


terremoti.


E le acque!


Mari che si spalancano come cancelli, fiumi che si voltano indietro, laghi imprevedibili, torrenti che si avventano improvvisi a danzare nelle gole, piogge dolci sull'erba, acque potabili che erompono dalle rupi.


Cieli che piovono pane, deserti che fioriscono come narcisi, e una strada


tracciata per il Re sulla quale camminano profughi da tutti i regni del mondo  


senza che li pungano scorpioni, li attacchino serpenti, li assaltino leoni,


sotto un sole innocuo, sotto un padiglione di ali celesti, verso quella Città omnipresente, magica come un sogno, lucente come un miraggio, meta sicura di tutte le speranze.


 


E poi le sorprese dei Vangeli, fino alla più improbabile di tutte, con quel giovane che cammina su un lago infuriato, si dichiara più vecchio di Abramo, paga le tasse con la moneta inghiottita da un pesce, si innamora dei bambini, imbandisce con niente sovrabbondanti merende sull'erba, piange con le donne, offende i potenti e se la prende con un povero fico senza fichi fuori stagione, ma poi non si difende in processi nei quali  potrebbe incenerire con uno sguardo un pontefice pericoloso, un re infido e un rappresentante di Roma; si lascia uccidere come un delinquente; e tre giorni dopo, più vivo che


mai, si presenta a cena dagli amici.


Poi sembra che per settimane non si decida a lasciarli; dalla riva del suo lago, dove ha preparato per loro la colazione per consolarli di una nottata avvilente, dà loro una mano riempiendogli la barca di pesci e prendendoli anche un po' in giro.


E poi torna sotto gli occhi di tutti, scortato dagli angeli, da dove è venuto, assicurando a tutti un posto nella sua casa.


 


Primo e Secondo Atto di uno spettacolo che ha come canovaccio


i capricci di un Dio innamorato, e che ci incanterebbe se non fossimo


così distratti; come ci incanterebbe la sfacciata bellezza di un messaggio


che grida al mondo sempre agonizzante l'invincibilità della vita, contraddicendo la morte.


 


Da “dove” viene allora la Bruttezza che morde come un lupus le nostre città, avvilisce i paesi, tiranneggia nei mercati dell'arte, sequestra le scuole,


e si scava tane perfino nelle nostre chiese?


E non solo cancella la bellezza formale delle cose, ma droga le coscienze,


confonde i pensieri, esilia la saggezza, e dis-onora l'uomo. 


Da “cosa” viene?


Da chi?


 


Se non fossimo così spensieratamente suicidi ci penseremmo.


 


La Bellezza salverà il mondo.


 


Se la cercheremo dove ha le sue radici e dove è garantita, nel Bene,


e se torneremo a riconoscere il Bene rimparando l'Analisi Logica.


 


Il più presto possibile.

Renato Laffranchi - info@renatolaffranchi.it