Home > Opera > Scritti > Incontri > I miei preti

I miei preti

Serie

Incontri

Descrizione

Perché coloro che li incontrarono rinnovino la gratitudine e coloro che non li conobbero imparino a desiderarli.

A PIADENA DON LISCIETTI

Da bambini d’estate andavamo a Piadena, dove l’Oglio a Canneto era il nostro mare e la Delmona, adesso così piccola, era un nostro Limpopo misterioso, con un’isola adesso quasi invisibile dove mio fratello ed io — e le cugine aggregate con maschile degnazione alle avventure — potevamo incontrare fra i cespugli il pericoloso Wallace Beere con il suo pappagallo sulla spalla o lo splendido principe indiano di un film visto col papà, di cui mi ero innamorato.

Un po’ più avanti, quando ero al ginnasio, introdotto all’Iliade da una professoressa che ci costringeva implacabilmente ad Omero e al latino (delle cui angherie mi trovo a dire da vecchio quel che Eschilo diceva delle soperchierie degli dei sopra i principi: “questa violenza è una grazia”), le poche acque di quel fosso potevano gonfiarsi ai miei occhi come i fiumi di Troia, e i ferrovieri di Piadena che venivano verso sera a lavare le nude membra nere di fumo in quel fosso, lasciando le biciclette un po’ storte sull’erba, recitavano inconsapevoli ai miei occhi la parte degli Achei stanchi di pugna che tergevano nelle fatidiche acque il sudore ed il sangue.

In quelle estati andavo a trovare il parroco, che chissà come era anche stato fatto monsignore, e mi incantava per la radiosa dolcezza del suo volto.

Lo trovavo di solito nello studiolo disadorno e pieno di luce, dietro una vecchia scrivania un po’ scrostata con una balaustrina di colonnine sbilenche ed alle spalle uno scaffale di legno povero con qualche libro un po’ frusto.

Mi sedevo, guardavo i suoi occhi e lo ascoltavo. E ascoltavo il Curato D’Ars.

Perché davvero lo era, senza saperlo. 

Lo era nelle ore in cui pregava al suo scomodo inginocchiatoio nella sua chiesa, che il suo amore aveva rivestito come una sposa paesana dei colori eccessivi di vetrate un po’ kitsch (ma anche il santo Curato non doveva poi essere un intenditore di cose d ‘arte).

Nelle gelide mattine invernali era lì magari da ore, col freddo che gli arrossava le orecchie che a me bambino ricordavano quelle del più piccolo dei Sette Nani, intercedendo per il suo gregge distratto con una ostinazione inflessibile e chi sa quanto dolente.

(E chi sa quante volte avrà contrattato con Dio come Abramo sui cinquanta, venti, dieci giusti da racimolare nella sua Piadena, )

Me lo ricordava, il Curato, quando tuonava dal pulpito contro i peccati, sopra una “audience” che se gli offriva la consolazione di un plotone di sostenitrici inflessibili lo umiliava con le diserzioni e l’indifferenza dei più. 

Allora, la sua voce pareva che non uscisse da lui, così fragile e magrolino, ma da un vulcano biblico, capace di incenerire città.

Una volta in una cappellina sulla via di Brescia l’avevo sentito attaccare con la dura violenza di un profeta il nazismo vincente, rivendicando i diritti di una Verità imbavagliata e di un Amore violato.

Quando poi, ancora infiammato di devozione e di sdegno, aveva alzato sui pochi fedeli l’ostensorio con il Signore, mi era parso di trovarmi sulle mura minacciate di Assisi, quando l’inerme mitissima Chiara sgominava i saraceni aggressori inalberando l’Eucaristia. 

Era la prima lezione di un coraggio che poi ho trovato nei preti che ho amato e che mi immunizzava dalla finzione di un antifascismo senza rischi che doveva diventare di moda, celebrando spesso un coraggio che è poi quello degli asini, una volta che sono morti i leoni. 

Perché allora i tedeschi li avevamo in paese; non tutti feroci per nostra fortuna, e qualcuno anche timido, come un ragazzo che ricordo, del quale mi sono chiesto per anni se tornò mai dalla sua mamma ed al quale per anni ho chiesto perdono per non avergli mai consentito di avvicinarmi quando, appena vestito da prete, pensavo con stupida presunzione di dovergli rappresentare la Chiesa che combatteva il suo Fuhrer e, trattandolo da nemico, di quella Chiesa tradivo la vocazione.

Mi parve di essere nella canonica di Ars, che immagino piccola e disadorna come la sua, una sera in cui mi invitava a dividere con lui la sua cena, che metteva in tavola un po’ d’erbe ed un uovo sodo — già da spartire con la vecchia perpetua, magra come lui e sempre un po’ arcigna.

Quante volte ho pensato a quell’uovo, a quella povertà semplice come un fiore, fedele senza esibizioni agli esempi biblici, quando leggiamo che l’ultimo pugno di farina rimasto e l’ultimo cucchiaio d’olio di una vedova senza risorse, offerti a un profeta per amore del suo Dio, si moltiplicano tenendo in vita fino alla fine della carestia il profeta, la donna e un bambino, anticipando i miracoli di Gesù. E quanto ci penso oggi, che della povertà della Chiesa parliamo tanto, vivendola così poco.

Mi aveva dato, Monsignore, un libretto di preghiere e di “massime” come si usavano allora, che ebbi caro come un tesoro segreto e che rimpiango di avere perduto; mi parlava del Signore come se passasse le sue giornate con Lui; sorvolava come un angelo un po’ distratto sui miei imbarazzi di peccatore, mi abbagliava con una fede che era già la Visione, mi inondava di una letizia infantile e perfetta, di un amore che assaporava come se fosse già in paradiso. E davvero guardarlo era come affacciarsi al giardino di Dio, dove lui già viveva. 

Vedo ancora i suoi occhi, come due laghi di un’acqua che avesse la sostanza limpida e imperturbabile della luce e il fuoco innocuo di una stella.

E adesso ancora, dopo tanti anni, e dopo sessanta che anch’io sono un prete, mi trovo a chiedermi quanto il fascino di quel profeta inascoltato, di quel pastore con l’ovile deserto e le pecore chissà dove nella notte, di quel contraddittore coraggioso delle menzogne che gli traviavano il gregge, l’esempio di quel custode disarmato che affrontava il lupo, non mi abbiano messo la voglia di mettermi dalla sua parte, di arruolarmi in quell’esercito che — allora come oggi — sembrava perdente.

Ricordo la sua gioia di bambino quando gli dissi che sarei andato in seminario; e la venerazione con la quale, venuto a Piadena per una della mie prime messe, mi baciò dolcemente le mani dove il mio vescovo le aveva segnate con il santo olio dell’ordinazione.

Se la grazia di quel bacio non è bastata a mantenermele pure, e se il prete l’ho fatto così male, mi ottenga lui, dal suo inginocchiatoio in paradiso, il perdono per cui so che continua a importunare il Signore.

***

A BOZZOLO DON MAZZOLARI

Andavo anche a Bozzolo, dove c’era don Primo, così diverso dal mio pretino di Piadena, in quello studio pieno di libri, dietro quella scrivania colma di volumi e di carte da cui fiorivano il suo sorriso e i suoi occhi.

Anche i suoi occhi due polle di cielo, in cui veniva voglia di sprofondare, velati a volte – o piuttosto colorati — dalle tristezze che doveva provare Gesù, quando Gli si chiudevano i cuori, quando i profeti mentivano, i pastori tradivano, gli avversari insidiavano, i mercanti contrattavano; e che provava lui quando la Chiesa che amava come uno sposo si tutelava dai rischi della Parola, riparandosi dietro quella prudenza “che è la massima delle imprudenze perché ci abitua a non contare più su Dio”, come ci insegnava.

Perché a Piadena era la pura sapienza del cuore che mi contagiava come un sorriso silenzioso e felice, come un anticipo e un assaggio della Visione, e a Bozzolo il Maestro parlava, con l’umano linguaggio dei pensieri.

Mi affacciavo sulla profondità di un mondo intorno al quale cominciavo a muovermi, incuriosito e affamato, come attorno ad una città che intuivo piena di tesori, una Tebe segreta dalle cento porte, una accessibile Città del Sole, una Città di Dio poco esplorata dalle agenzie dei viaggi dello spirito. 

Una città in cui si parlava spesso francese, per quegli autori ardimentosi, per quei cristiani fiammeggianti che io cominciavo a leggere, che don Primo conosceva bene e che solo un altro grande prete, parroco in cima alla Valle Canonica, mi avrebbe mostrato anni dopo nella sua libreria con una solidarietà anche un po’ complice, incoraggiandomi a leggerli. 

Perché alle assonnate sentinelle di una Chiesa murata il coraggio di quella libertà sembrava minacciare – e minacciava davvero – le garanzie di quella illusoria prudenza.

E pericoloso sembrava anche lui, a quelli che credono che amare la Chiesa sia appisolarsi in un “ tutto va bene” che esenta dalla passione che ustionava il cuore del Cristo, sposo esigente come tutti gli sposi innamorati; che amare il papa sia adularne la corte; che l’ascolto e il dialogo siano da incoraggiare soltanto quando siamo sicuri che ci daranno ragione; quelli che mettono in allarme le intemperanze dell’intelligenza e gli azzardi della poesia.

Quelli che fanno credere che l’obbedienza sia una comoda abdicazione e non un consapevole dono.

E consapevole dono era l’obbedienza di don Primo, la sua lunga crocifissione, la sua forza sempre perdente perché bastava che la miopia di un burocrate gli intimasse il silenzio e don Primo taceva. 

A quell’obbedienza avevo offerto l’omaggio di un quadro, uno dei primi osati quando ero ancora a Pisogne, dove l’avevamo invitato a parlarci e dove mi aveva comunicato in una cartolina postale che rinunciava a venire per non trasgredire a una intimazione. 

Era una figura del Signore con le mani legate, lunga e sottile come una candela, fatta più di silenzi che di colori, perché io vedevo nel suo silenzio il silenzio dell’Uomo legato nel pretorio, sovrana e ultima asserzione della Verità.

Non l’ho più se non nella memoria quel quadro, che don Primo non vide mai, mentre mi domandava qualche disegno per quel foglio così sospettato che chiamava Adesso, dichiarando l’urgenza che accompagna l’impegno cristiano nel mondo, quando ogni giorno, oggi, adesso, dovremmo vendere il mantello per procurarci la spada – non la spada che uccide ma quella che trafigge le barricate dei cuori.

Lo vedevo come una fiamma e lo vedevo come un albero, alto e diritto com’era, che il vento spettinava solo un poco, ma non piegava; o come il muro di bronzo che erigeva il Dio di Israele, inviolabile, contro le menzogne dei sacerdoti e le prepotenze dei re.

Quanto a quell’albero mi sono appoggiato, io prete ventenne, anch’io discusso e anch’io sospettato per quei primi quadri che turbavano molti con indizi di eresia o peggio ancora di simpatie comuniste, che oggi mi tornerebbero a merito!

Quante volte dietro quel muro ho messo in salvo la mia debolezza e ho imparato a guardare dai suoi bastioni senza paura i nemici.

Mi ricordo la sua voce, sempre come ferita da una passione che era lampeggiare di verità da gridare sui tetti e tormento di un amore che non si rassegnava a perdere anche solo un fratello, di quelli che gli aveva affidato il Signore; che non erano poi solo quelli nominati nei registri di Bozzolo, ma tutte le creature di Dio.

Quella sua predica sanguinante e infiammata in cui in una sera di Venerdi Santo si addossava il peccato di Giuda e lo addossava a noi tutti, saldandoci in una irrimediabile fraternità di colpevoli, quasi a dire al Signore che se voleva salvare noi doveva salvare anche il fratello che Lo aveva venduto. Così scavalcava perplessità di teologi e lacerava diffidenze di giuridici, avventandosi e scaraventando noi nell’infuocato cuore di Dio.

Mi ricordo il vento puro della sua poesia che portava sapori e profumi terrestri al Mistero, imbandendo per la sua gente una mensa paesana sulla quale c’era tutti i giorni un posto e un bicchiere di vino per tutti.

Capitando nella sua chiesa un giorno di San Pietro, la vidi tutta addobbata di festoni di spighe, che somigliavano davvero, come lui disse cominciando la predica, alle reti dei pescatori; e con quel semplice dono faceva i suoi contadini mantovani compagni degli uomini che faticavano sul lago del Signore e li persuadeva a fidarsi di un Pescatore.

Quanto cerco ancora quella voce e quegli occhi, e l’esempio di quel prete che mi ha insegnato che l’amore alla Chiesa è vero soltanto quando è amore degli uomini; che il dovere della denuncia è il dovere della fedeltà; che la pazienza è l’armatura della Speranza e l’impazienza ne è la spada; che quando siamo prevaricati, imbavagliati, inchiodati è proprio allora che siamo vincenti, con il Signore. 

***

I MIEI PADRI DELLA PACE

Furono la passione e il coraggio di Padre Bevilacqua a indurre mio padre ad una inedita frequentazione di chiesa, come convinsero molti ad una condivisione di pensieri — o almeno ad un tributo di stima — oggi ancor vivi in una generazione di bresciani che va ormai assottigliandosi.

Con il papà andammo alla Pace anche noi, dopo saltuarie e disamorate frequentazioni di un oratorio noioso in periferia, e ci rimanemmo fin che io andai in seminario e mio fratello in Marina.

Certo non eravamo allora suscettibili degli arricchimenti spirituali e mentali che quello stupendo predicatore offriva ai suoi ascoltatori, visto che il tempo della “dottrina” durante i Vespri della domenica lo occupavamo con più soddisfazione, noi del Collegium Tarsicii, in svagate e rumorose distrazioni in giro per i corridoi o nella stanza dei confessionali degli uomini – magari giocando a fare i cardinali al conclave che avrebbe poi eletto al nostro posto Pacelli – fin che non ci sbaragliavano Padre Pifferetti o Padre Fondrieschi, minacciandoci gli scappellotti che ci impartivano energici e salutari nella sala del cinema quando esageravamo in fragorose proteste per strappare un supplemento di Ridolini ai vecchi films ai quali l’uno o l’altro davano voce con sommarie interpretazioni dei dialoghi muti.

È poi andata bene – più a loro che a noi – che non si fossero ancora impadroniti delle “questioni minorili” i manipoli di assistenti sociali, di genitori iperprotettivi e di tribunali specializzati per i quali uno scapaccione qua e là pare in grado di alterare irrimediabilmente la personalità di un monello consegnandolo a un lacrimevole destino di complessi e di turbe. (Quanti di noi dovremmo essere malati di inguaribili alterazioni della personalità, e forse lo siamo, senza nemmeno saperlo.) 

Ci consolava un po’ la dolcezza di Padre Dolci che preparava come una chioccia paciosa i suoi pulcini al primo assaggio del Pane Celeste e mi sorride ancora dal gruppo della mia Prima Comunione, dove appaio infastidito da una amica di famiglia che mi diceva di tenere fermi i piedi.

Non ho mai più trovato un nome che si adattasse meglio a una persona, se non tra i nomi che troviamo nella Bibbia; e ho trovato invece lui tale e quale in una bella pittura del Quattrocento, dove un Medici sorride ai suoi nipotini (non ricordo se è un Cosimo o un Piero, non ricordo il pittore e sono troppo pigro per cercarlo nei libri.)

Ci divertiva, e si divertiva anche lui, l’austero Padre Carli che dalla sua finestra sul cortile ci faceva piovere manciate di minuscoli confettini alternate a spruzzatine di acqua fresca altrettanto luccicanti anche se meno appetibili.

Guardavo allora con perplessa venerazione – e lo guardai anche da grande – il discreto e silenzioso Padre Manerba, al quale era canonicamente affidato dalla diocesi l’indecifrabile privilegio di sanzionare l’autenticità di un frammento della croce del Signore o del malinconico ossicino di un santo.

(Mi chiedo ancora se la croce era grande come un bastimento, visto che ne ho in casa anch’io una scheggina…).

Bevilacqua lo capii dopo, crescendo, e ne ebbi ammaestramento impareggiabile e ammonimento indimenticabile vedendo la sua fierezza di testimone senza paure, la sostanziale umiltà del servitore di Dio, la sua povertà sconcertante, la libertà alla quale davvero “lo aveva liberato il Cristo”, come lui Lo chiamava sempre e mi ha insegnato a chiamarlo, il suo amore alla Chiesa che era severo e fedele come quello dei preti che ho amato. 

Gli altri Padri non li nomino qui, ma i loro nomi salgono adesso all’affettuosa memoria di chi legge, se come me ha avuto il dono di esserne illuminato ed è stato beneficato dalla loro intelligenza e dalla loro carità, visto che ce n’era per tutti i gusti: dall’intellettuale più raffinato all’operatore più disadorno, come quel trasandato edificatore di case che per tutta la vita mi ha dichiarato di non capire niente della mia arte, mentre io invidiavo la sua, più necessaria e più grande e più somigliante all’arte di Dio. 

E poi, alla Pace io ho imparato tutto. La Bellezza di Dio, soprattutto, che si impadroniva del cuore con la convincente fascinazione delle liturgie, formalmente perfette ma mai rinsecchite in puntigli cerimoniali, come ora spesso lo sono, sotto la ferula di registi che confondono il rito con il protocollo; (fascinazione della quale resto ancora prigioniero felice) ; la Verità catturante della Santa Parola che davvero ci trapassava come una spada implacabile e guaritrice; e ci insegnava a diffidare delle vuote eloquenze che risuonavano nelle piazze d’Italia, in quelle celebrazioni della Morte alle quali venivamo obbligatoriamente convocati.

Lì mi ha conquistato l’incanto di un Regno appena intravisto, di una Gloria che annientava la dominazione della Babele che soggiogava il mondo; e sbugiardava i profeti che promettevano millenni di pace e terrestri paradisi, da una parte e dall’altra d’Europa, smascherandoli come i ciechi piloti di una nave di folli alla deriva, come i servi di un impero della Morte, come gli impresari di un circo pieno di belve non domate e di pagliacci senza gioia.

Lì mi ha sedotto la meraviglia del suo Re, che alzavamo nel Suo ostensorio in quelle feste indimenticabili, opponendo fulgore del Sole alle caligini della Notte, il silenzio dell’Agnello ai latrati dei bruti, l’Amore sgozzato alle prevaricazioni dell’odio, il Vivente Immortale all’antico Omicida.


Per questi doni ricevuti, ancora capaci di rendere la mia povertà meno disastrosa, per questo banchetto che allestirono quei Padri per me in quella chiesa in cui vado così poco ma in cui continua ad abitare il mio cuore, Dio li rimuneri per me con i Suoi premi di gloria.

***

IL MIO VESCOVO

Ne ho avuti quattro, che ho amato e che mi hanno capito ed amato; e se campo avrò il quinto.

Ma quando in duomo passo vicino alla tomba di Monsignor Tredici mi trema il cuore.

Veniva in seminario, dove ero entrato dopo il liceo e stavo un po’ sconcertato e un po’ ribelle, stretto nelle Regole che mi sembravano — ed erano — eccessive (e che adesso benedico, se penso a certi seminari di oggi traversati da tutti i venti, che sembrano a volte più solleciti a prepararci funzionari che pastori).

Mi incantava la sua figura così nobile, anche se ne commentavamo divertiti l’eloquio vacillante che non aiutava l’esposizione dei pensieri, senza impoverire le comunicazioni del cuore (e che io imitavo così bene, per lo spasso dei miei compagni.)

Quella iniziale fascinazione doveva poi diventare un affettuoso amore filiale per la privilegiata esperienza di un attento, tenerissimo amore paterno che mi ha illuminato, custodito e rassicurato in anni difficili, che mi ha guidato senza intimazioni e corretto senza rimproveri, pilotando con mano leggera un’avventura che nemmeno gli era congeniale.

“Io non capisco niente dei quadri di don Renato, ma se Loro mi dicono che è davvero un pittore non posso e non voglio impedirlo” diceva nel maggio del 55 a Carlo Carrà ed agli autorevoli critici che aveva voluto incontrare a Milano in occasione di una mia mostra.

E davvero non mi impedì, trasferendomi subito dall’oratorio di Pisogne alla chiesa di San Nazaro, con il mandato di predicare e dipingere.

Quel mandato me lo confermarono i suoi successori; ma allora, quando tiravano nella Chiesa arie tutt’altro che benevole verso l’arte del nostro tempo, e da Roma si chiedeva ai vescovi di intervenire se qualche prete ne sembrasse contagiato, era stato un atto di coraggiosa fiducia, coerente del resto con la ferma autonomia del pensiero e l’indipendenza delle decisioni che accompagnavano la fedeltà del suo motto. 

Colto com’era, e così ben radicato nelle cose sostanziali della fede, restava attento, aperto e curioso verso ciò che anche nuovo ed inedito — e per tanti altri rischioso – gli dava il sospetto di qualche possibile arricchimento. 

Non dimenticherò mai le lunghe udienze nelle quali mi domandava che gli spiegassi le ragioni di una dedizione a quell’arte così diversa e così in mala fama, e mi ascoltava con la semplice curiosità dei puri di cuore, fin che il segretario – quell’altra meravigliosa figura di prete che traduceva in generosità senza limiti la sua carità di Pastore – non si affacciava a rimproverarlo sorridendo in nome dei parroci che aspettavano in anticamera. 

Non dimenticherò mai l’affettuosa appena accennata ironia con cui annacquava le intemperanze di un trentenne che gli denunciava cecità che lo sconvolgevano e se la prendeva magari con un cardinale; mai la ferma tutela che mi garantiva quando mi vedeva intimorito o ferito; mai la fiducia che mi rassicurava quando mi diceva addirittura: “Certe cose, dille solo a me”.

Un suo ultimo dono lo ebbi mentre stava morendo. Ero con altri preti nella stanza accanto, in attesa silenziosa e dolente e intravedevo attraverso la porta il suo letto. Fu più forte di me e mi trovai inginocchiato a quel letto a baciargli le mani. Allora don Angelo gli sussurrò piano: “È don Renato, il pittore”. Ebbi allora il suo ultimo leggero sorriso, ed un gesto accennato della sua mano che era insieme un saluto, una benedizione e un “sta’ attento”.

Sono ancora in udienza da lui, sono ancora inginocchiato a quel letto, ancora sotto quella pallida mano, ancora lo ascolto, ancora mi affido; e fino all’ultima ora omai non lontana gli domanderò perdono degli errori e delle colpe che la sua vigilanza non ha potuto impedirmi e lo ringrazierò per avermi sposato con il suo anello alla Chiesa.

***

DON PEBEIANI

A San Francesco di Paola c’era don Stefano. 

Alla messa che avevo servito a dodici anni nella cappella del Vescovo per il matrimonio di una cugina, il papà aveva riconosciuto nel parroco il seminarista che decenni prima faceva le sue vacanze nella cascina della Bassa dove il nonno lo aveva mandato a far pratica, la cui vivacità aveva contribuito a domare a forza di scopaccioni.

Ne era nata allora una amicizia che quando seppe che sarei andato in seminario si trasformò in una vera adozione. Ci volle nella sua parrocchia, ci trovò un appartamento, mi procurò un padrino perché eravamo poveri e cominciò a sognare di avermi con lui una volta prete e addirittura di lasciarmi il posto una volta ritiratosi; il che non accadde poiché lo perdemmo l’anno prima della mia ordinazione.

Per tre anni, prima che andassi a casa in vacanza, il mio Vescovo voleva vedermi e mi rinnovava le raccomandazioni: che prendessi dal mio parroco la cultura, la fede, l‘esemplarità della vita, ma non ne assumessi il linguaggio.

E il linguaggio era davvero irripetibile, quando quel piccolo contadino nero e irsuto – che a me pareva un cinghialino all’attacco – lasciava erompere ire, accuse, minacce di castighi medievali contro fascisti, ricchi egoisti, impostori e imbecilli; e contro preti, vescovi e frati.

Un linguaggio che allora era facile trovare sulla bocca di altri ministri del Signore che i bresciani hanno amato e che hanno onorato la Chiesa, così diverso dell’”ecclesiastically correct” che ci fa adesso parlare con insapore omogeneità impiegatizia — e che siamo in tanti a rimpiangere.

Di don Stefano, racconto volentieri agli amici le battute più audaci, ma non le trascrivo benché richiesto, non perché sia “nefas dicere”, ma perché trascritte, magari in lingua, perderebbero la rustica sonorità che le accendeva.

Sono lezioni di saggezza e di vita, di una fede sostanziale e di un domestico realismo magari brutale ma galantuomo che andranno perdute con la memoria dei vecchi, il che è triste ma inevitabile, poiché se seccano gli alberi purtroppo se ne rinnovano i frutti.

Anche la carità di don Stefano era come il suo eloquio. Non la composta pianificazione a tavolino di ponderati – e magari astratti – provvedimenti oggi in voga, ma l’accelerarsi improvviso del cuore davanti al bisogno, all’indigenza, alla pena di un uomo, di una donna, di un bambino, mai individuati nelle classificazioni oggi in uso delle povertà vecchie e “nuove”, ma incontrati ogni volta e ogni volta patiti come delle improvvise aggressioni di Dio.

Anche la carità era a volte, irosa e contraddittoria, come quando lo sentivamo assaltare al telefono con insulti da strada un vituperato questore per denunciare l’inefficienza delle sue guardie che ogni tanto visitavano senza chiuderla la “casa” a conduzione familiare che esercitava scandalosamente sotto il sagrato della sua chiesa (naturalmente le sue rimostranze erano molto più crudamente specifiche).

Se poi gli osservavamo sorridendo, il curato ed io, che era lui che ne sfamava in quegli anni magri il personale e forniva di lana gli illegittimi che venivano al mondo, si infuriava contro di noi accusandoci di insensibilità inconcepibili.

Una carità che vedeva soltanto l’uomo e che davvero si rivelò eroica quando si riversò come un fiume represso sui nemici più nemici che aveva: quei fascisti dei quali parlava, quando comandavano, con tale avversione da far dire a qualcuno “ come fa un prete ad odiare così ? “ 

Oggi che caduto il fascismo siamo tutti così ardimentosi a combatterlo e così reticenti a denunciare i nemici (quando non ce ne facciamo complici sotto banco con simulazioni di pace) è difficile immaginare il coraggio con cui scaraventava il Vangelo in faccia ai fascisti che venivano in chiesa a spiarlo e la dura fierezza della sua audacia.

Come nessuno avrebbe allora immaginato che finito il regime, impiccati i tiranni, si sarebbe rifiutato di cantare il Te Deum lasciandolo cantare al curato e denunciando alla balaustra con lo stesso coraggio la nuova violenza già in atto, i voltagabbana improvvisatisi eroi – a uno dei quali una notte, rischiando la vita, strapazzò lo straccetto rosso appena legato al collo, presago di un nuovo mito che per mezzo secolo sarebbe servito a qualcuno a disonorare legittime rivendicazioni di gloria con la copertura di stragi. 

Così passò addirittura per fascista agli occhi dei farisei, quando si prese in canonica un gerarca non innocente – e mi mise in casa nelle ultime notti di spari due ragazzi spaventati, figli di un federale romagnolo, di cui non seppi più nulla.

Così mandò me chierico ed un altro ragazzo, uno spilungone buono che adesso forse mi legge e non era con quelli andati in extremis a fare i ribelli sui Ronchi per discenderne vincitori al momento giusto, a strappare pezzi di carne tedesca da una rete metallica alla Bornata e a mettere nelle casse quei giovani corpi carbonizzati sulle motociclette distrutte, perché la morte ce li rendeva fratelli.

Così parve eccessivo, anche a noi che gli volevamo bene, che in quella primavera infuocata dovesse salire a piedi tutti i giorni in Castello, per portare ai nemici rinchiusi una merenda di pane o una mela o un pugno di tabacco della sua pipa, la sola sua trasgressione alla povertà, alla quale era tanto affezionato che se la toglieva di bocca solo quando dormiva e all’altare.

La cultura che il Vescovo mi raccomandava di imparare era profonda, saldissima, lucidamente ancorata ad una fede senza titubanze e senza divagazioni. E sorprendeva chi ne conosceva soltanto il rustico aspetto e lo sconcertante linguaggio, del resto contraddetti dal fuoco nero dei suoi occhi.

Quante volte mi intimava di studiare, perché “ di preti asini ce n’era abbastanza”! E quanto mi ha contagiato quel suo amore per i libri, quando lo vedevo accarezzarli, appena comprati, mentre giocava a carte, la sera, sul tavolo di cucina, ascoltando Radio Lodra, sotto una visiera di celluloide verde come quelle dei giornalisti americani del cinema, che non aggiungeva eleganza all’insieme e me lo faceva sembrare un irsuto barbaro di Tacito sotto un elmo improvvisato. 

Tanto più che quelle partite erano vere guerre senza osservanza di regole etiche, visto che barava sfacciatamente dimenticando l’aretè dei duellanti di Omero che citava con convinta ammirazione in quei tempi di disonoranti violenze.

Vincerlo a carte era una colpa che non perdonava, lui che condannava i peccati ma era poi amico di adulteri, miscredenti ed ubriaconi.

(Non diciamo di ebrei, visto che ne infilò un bel numero nel corpo ufficiale della Chiesa con attestati di Battesimo magari fasulli; in buona compagnia, in questo, tra i suoi colleghi.)

Un’altra offesa, cui nessuno di noi voleva arrischiarsi, era svegliarlo dal pisolino estivo pomeridiano.

Mi ci dovetti azzardare una volta cedendo alla sua perpetua (la sua “mantenuta”) che era venuta a chiedermi aiuto perché lo cercavano in canonica due vescovi, uno dei quali detestava, fra l’altro, perché diceva che era fascista. 

Me li ricordo congelati su un divanetto nel suo studio, mentre io non sapevo dove guardare e lui scendeva per la scaletta che portava di sopra allacciando un bottone della veste ogni gradino ed emettendo ogni gradino uno sbuffo di pipa e l’udibile improperio di una irripetibile litania di insolenze bresciane che si concluse senza Amen quando disse “riverisco Eccellenze” e cominciò come niente fosse a intrattenerli — tenendo banco.

Pare che un prete così e i tanti altri che gli somigliavano, con personalità 

così diverse e modi così diversi di lavorare alla vigna del Signore, non convincano oggi i pianificatori di una pastorale che diffidando dai personalismi” scoraggia le personalità, e promuove una omogeneità di

comunicazioni, di iniziative, di tempi e di metodi, che non è la “concordantia diversorum” di Platone né la concorde “varietas” della Chiesa di Paolo, ma la piatta conformazione a modelli confezionati negli uffici curiali.

Proprio una sera in cui a San Francesco di Paola avevamo ricordato don

Stefano tra commozioni e sorrisi, con un entusiasmo forse un po’sospettabile di rimpianti preconciliari, un curiale che ci doveva parlare della nuova figura del prete ci congelò precisando che il ruolo del presbitero auspicato dalla sacrosanta Assemblea dovrebbe essere quello di un “ erogatore di servizi “.

Pensammo tutti che cosa avrebbe detto il commemorato; e forse lo ha detto nel mondo di là, se il Signore e San Pietro non gli hanno ripulito il linguaggio.

Caro don Stefano, che mi dava della bestia e aveva paura che in seminario mi rovinassero; che mi ha insegnato la fierezza d’essere cristiano; il coraggio che non fa temere coloro che uccidono il corpo e fa sfidare quelli che uccidono l’anima; un amore alla Chiesa che era quello di un ruvido sposo intransigente e fedele, che non assopiva indignazioni e denunce; l’operosa applicazione dell’intelligenza — che aveva acutissima — e quella passione per gli uomini che “faceva carne” la sua alleanza col Cristo.

***

IL MIO ARCIPRETE A PISOGNE

Non fu mai chiaro quando andasse dal barbiere o quando qualcuno gli spazzolasse la tonaca. Era cresciuto in uno di qui villaggi di montagna che ebbi modo di conoscere andando ogni tanto a sostituire qualche parroco, dove i preti condividevano con la loro gente una povertà senza conforti.

Ricordo di quelle canoniche il freddo, i letti inospitali, le librerie traballanti nelle quali tra vecchi libri di teologia e qualche rivista mi capitava di trovare vetuste edizioni di Virgilio e di Orazio – oggi certo più disattesi — e il cibo che diventava “festivo” solo alle feste dl Signore e di Santi. 

Non c’era ancora la Chiesa dei Poveri che ci ha accomodato tutti con canoniche da signori, automobili, segreterie, telefonini e vacanze (quei preti si assentavano sette giorni all’anno per fare i ritiri).

Da quella povertà don Recaldini era non solo caratterizzato ma come costituito, con rigori che lo facevano sembrare avaro, dei quali un po’ ridevamo e un po’ lo criticavamo senza che se ne offendesse e ancor meno se ne correggesse. 

Ridemmo del primitivo terrore che lo paralizzò quando lo inducemmo ad affrontare la deprecata “diavoleria” di un microfono; ridemmo alla indimenticabile predica per una festa del martirio di San Giovanni, quando la sinistra vicenda si ambientò tutta in parrocchia e ne divennero istigratici, Erodiadi senza saperlo, le mamme e le nonne di Pisogne, e a danzare la danza fatale non fu l’esotica Salomè ma le “sinforose” del paese; e nella parte di Erode sedotto, declassato da criminoso tiranno a un ” macaco” stralunato dal vino, furono in scena i “giovanottini” locali, vittime raggirate dalle femminili malizie, che “credevano di toccare il cielo col dito” — e non scrivo che cosa erano destinati a toccare. (Il Battista restò nelle quinte.)

Sorridemmo quando capitò che sbagliando il nome di una defunta che aveva beneficato il pase, dedicò il meritato elogio alla cognata spaventatissima nel primo banco.

Sorridevamo un po’ meno quando a Pasqua e a Capodanno, basandosi sui dati del curato, ci comunicava dal pulpito quanti più o meno saremmo mancati la volta seguente, già morti. 

La Morte. Era il suo ossuto cavallo di battaglia: e quando ne vedo uno in qualche Trionfo medioevale mi ricordo sempre di lui.

Si doveva vivere virtuosi perché si muore.

Io cercavo di spostargli il tiro, ma non c’era verso.

Una domenica credetti di farcela, col Vangelo del figlio ridato alla vedova di Nain, ma salito sul pulpito parlò solo del funerale; e a me, che sedevo coi chierichetti in presbiterio, si rivolse in dialetto così: “ E voi, sigarettina di un curato, avete poco da ridere; perché quando verrà Maria Magra perderete le braghe anche voi come fa il vostro arciprete.” 

(E quanto aveva ragione lo so adesso.)

Gli volevamo bene tutti, per la semplice trasparenza della sua vita, per quella fede essenziale che mi dava a volte il sospetto che fosse fondata sul Vecchio Testamento più che sul Nuovo; e certo più sulla Traditio che sui documenti romani. Se qualche volta mi appellavo al Papa, mi diceva tranquillamente che “quelli che gli stavano attorno” gli facevano anche dire quello che volevano loro.

Gli volevamo bene per quando non riusciva a parlare per la commozione ai funerali dei bambini, sudando lacrime, lui così roccioso, sulla sete del suo popolo; come le pietre che Mosè percuoteva con la verga di Dio.

Gli ho voluto bene per la rusticana saggezza e il rude affetto con cui mi capiva – e mi accettava quando non mi capiva — così diverso e sconcertante com’ero, anche per i parrocchiani.

Una volta era tornato da Brescia sconvolto perché “i suoi compagni gli erano saltati addosso” a un raduno di preti, domandandogli cosa faceva il suo curato. (Era esposto in Duomo Vecchio uno dei miei primi quadri, con un Gesù nel Getsemani vestito di verde.) Mi domandò severo quante volte avevo visto il Signore vestito di verde e io gli chiesi quante volte lo avesse visto lui vestito di rosso. Mi disse che in fondo era vero, che era poi solo questione di abitudini; come la gente che era abituata a vedere lui tabaccare ma non a vedere un curato levarsi la veste per un bagno nel lago… “qui aures habet intendat”.

E ringrazio ancora il mio Vescovo che mi aveva chiesto di andare in quel paese che era per me un’area bianca nella mia lacunosa mappa del mondo, dove mi aveva promesso — e trovai – il galantuomo che cercavo e un maestro. E dove, con un curato fedele che ha servito quella parrocchia fino alla fine della sua vita, c‘era un caro vecchio don Luigi che predicava solo alla festa di 

San Giuseppe perché era l’unica predica che gli veniva bene; che salmodiava all’alba negli uffici funebri con il parroco, intercalando alle accorate invocazioni latine, con nostro grande divertimento, confidenze e consulti circa occasionali disturbi non previsti dal rito; che avrebbe dato una mano di bianco all’indecente Cappella Sistina; ma che se mi vedeva sostare un po’ a lungo nei banchi mi sussurrava all’orecchio “ Non Gli dia troppi vizi, altrimenti poi deve mantenerGlieli!”

Il Signore lo avrà certo sistemato in un reparto del Paradiso dove gli angeli vanno in giro vestiti e intratterrà i confratelli su più celesti argomenti.

Il mio grazie anche a lui, che ha voluto bene a quel curato ventenne così discutibile e che nella mia memoria continua a correre a piccoli passi affrettati, sempre indaffarato in un fervore che mi faceva pensare alla perpetua agitazione del Coniglio di Alice.

***

A SAN NAZARO

Quando il Vescovo mi trasferì a Brescia, qualche parroco si mostrò un po’ allarmato all’idea di un curato pittore in dubbia fama tra i benpensanti, in sospetto di simpatie comuniste perché “dipingeva come Picasso”, l’uno e le altre non ancora di moda. Ma ce ne fu uno, più che ottantenne, che mi volle con sé, e mi diede lo studio nel quale ancora adesso lavoro.

Così ebbi la grazia di vivere cinque anni con il personaggio più singolare della Chiesa bresciana pre-conciliare.

Preconciliare certo, Monsignor Pasini, e apertamente non entusiasta di certe innovazioni come lo erano altri pastori che conobbi e che amai, che poi il Concilio lo avevano già fatto per conto loro, anticipando aperture e azzardando libertà che sarebbero poi state legittimate, anche se spesso più nelle dichiarazioni che nei fatti.

Nato nel 1873, tre anni dopo l’impresa di Porta Pia, che non aveva mai

digerito, politicamente “austriacante”, Monsignore aveva una concezione della Chiesa e dei suoi diritti che oggi anche il più nostalgico dei lefevriani considerebbe datata.

Di quei diritti si considerava portatore; e ne garantiva l‘intoccabilità, nel suo ruolo di Vicario del Vescovo, con una fierezza che negli anni di occupazione era riuscita a piegare qualche prepotenza tedesca, come quando indossati tutti i segni della sua dignità si presentò ad un colonnello per chiedere – meglio esigere – la liberazione di qualche prete.

Pare che invitato cortesemente a sedersi rifiutasse di farlo, intimando al Commandantur sconcertato di alzarsi lui, visto che aveva davanti la Chiesa. 

E naturalmente, ostinato com’era, la spuntò sul tedesco che lo aveva preso per il vescovo.

Per rendere quella sua funzione visibile eccedeva anche un poco, addobbandosi di “finimenti rossi” (come li chiamava don Stefano) cui pareva non avesse diritto; e abusava volentieri della mitra vescovile allora connessa con limiti precisi con la sua prepositura alla Colleggiata. 

Ogni tanto l’ Ausiliare Monsignor Bosetti — che mi aveva fatto innamorare della Bibbia in seminario senza riuscire a insegnarmi l’ebraico e fu un’altra luce che illuminò le mie notti – mi chiedeva di indurlo a non elevare una “messa bassa”, come allora si diceva, a pontificale, con l’uso improprio di infule e bugia; ma io rispondevo che dove due vescovi non osavano non avrei osato io. Imbarazzava la Curia anche di più la sfacciata intraprendenza con la quale interpretava gli articoli del Codice in materia matrimoniale, con trasgressioni che aveva poi l’incongruenza di rimproverava a poveri parroci intimiditi e perplessi.

Ci sconcertava quando alle Cresime chiamava ad uno ad uno per nome un centinaio di candidati, con riferimenti affettuosi e divertiti a un papà o ad un parente, ignorando l’elenco preparato dal prefetto di sagrestia, l’angelico don Battista sempre inutilmente solerte e mortificato. Poiché l’archivio vivente della parrocchia era lui, che la gestiva come una grande famiglia della quale era il vigile nonno, come i Patriarchi che avevano in mente — e nel cuore — i genitori e i generati delle tribù; e ne portò via con sé la registrazione, lasciando lacune documentarie che avrebbero imbarazzato i suoi successori.

Proprio come un nonno io l'ho amato, e gli altri preti con me, come un nonno ci ho giocato e qualche volta litigato, godendomi la ridente furbizia e la consapevole complicità che scintillavano nei suoi occhi come negli occhi di un bambino. 

Faceva il tifo per Coppi quando i cattolici parteggiavano per il rivale cattolico e lo provocammo quando esplose lo scandalo, ottenendo solo che lo difendesse addirittura in una predica, accusando “ la stampa nefanda che disonorava la memoria di un campione pubblicando l’immagine di una druda”

Perché quel vecchio prelato all’antica che disapprovava l’uscita di Papa Giovanni verso Assisi, quando “un papa deve stare a casa sua”, era poi partigiano del suo campione e tifoso delle Mille Miglia di cui seguiva le tappe stando in piedi di notte, per informarne a Messa Prima noi curati assonnati.

Ci divertiva quando noi pagavamo il biglietto sui tram e lui no, contentandosi di un salutino paterno al tranviere allibito e accomodandosi tra i passeggeri un po’ risentiti, perché la Chiesa aveva pure questo fra i suoi tanti diritti. 

Recitavamo (sottovoce) con lui, noi e il sagrista, la conclusione dei sermoncini nuziali sempre identici e sbrigativi e sorridevamo — quando non diventavano insopportabili — dei continui irritati interventi nelle funzioni, quando il turibolo era sempre in ritardo e un chierichetto confuso si trovava sempre nel posto sbagliato (e la colpa era sempre di don Battista). 

Ma proprio queste contraddizioni ce lo hanno fatto amare, come quelle del mio don Stefano e del mio parroco di Pisogne, certo non ufficiosi “erogatori di servizi “ma generosi dispensatori a tempo pieno dei misteri di Dio.

Poiché tutto era assunto da una fede di roccia, tutto infuocato in una carità irragionevole come quella di Dio; che gli faceva conservare le cartoline dei suoi chierici al fronte nella guerra del 15, gli faceva tirar giù del tetto i sagristi per azzardati matrimoni notturni che qualche volta avevano l’unico risultato di procurare un letto a due cristiani che non l’avevano; che gli fece dire alla gente, quando compì ottantasette anni, con una licenza letteraria anche un po’ discutibile ma che toccò i cuori: ” Ottantasette…Ho tanta sete! Delle vostre anime.”

Non le sento più dire, queste parole, e non le dico neanch’io.

E pure è questa sete che sposa la Chiesa allo Sposo assetato sopra la croce che fa di un uomo peccatore un “ministro” della Misericordia.

“Ricordatevi — mi diceva – Sacramenta propter homines!”.

Quando un prete sa questo e non lo dimentica, l’Incarnazione continua “per noi uomini e per la nostra salvezza”, prima, dopo e oltre le innovazioni e i concili; e le ombre che fanno un prete umano fanno più luce alla Luce Dio.

La sua morte: forse il suo capolavoro.

Lui che rifilava l’ultimo Sacramento a zanardelliani ed agnostici con la quieta ostinazione che imbarazzava i parenti — e qualche volta li indusse a persuadere il morente ad accontentarlo per non vederselo accampato su una seggiola tutta la notte — quando venne la sua ora non voleva saperne. 

I curati mi mandarono dal Vescovo perché venisse lui a parlargli.

Venne, un po’ intimidito, ma non poté nemmeno cominciare il discorso che monsignore lo liquidò con tanti segni di croce e tanti “Grazie Eccellenza!”. Uscito il Vescovo, mi fece segno di avvicinarmi e mi disse piano all’orecchio 

“ Quella gente lì non ha fiducia nei dottori! “, lui che ne aveva così poca.

Il mattino dopo, lucido e ostinato come il solito, con le calze rosse della sua dignità sotto il camicione da notte, dopo un ultimo rimprovero a don Battista

che emozionato aveva omesso nelle litanie dei Santi il nome di San Giuseppe, finalmente si addormentò come un bambino, con la sua pallida guancia appoggiata alla mia piena di lacrime. 

E ricordo che il Vescovo, mentre lo accompagnavo per le scale, mi toccò il 

braccio e mi disse, incespicando un poco: “don Renato promettimi una cosa: se proprio lui dovesse morire senza sacramenti, che non lo sappia il clero”, 

associandomi senza merito alla delicatezza che era nel suo motto e nella sua vita, al suo ultimo atto di amore a quel prete meraviglioso e difficile, a suo modo indomabile, come quel ciuffo di capelli candidi che fuoriusciva nei momenti più solenni da quella sua mitra un tantino abusiva. 

***

Dopo di lui ebbi la grazia di avere a San Nazaro Monsignor Almici, che avevo avuto per la Religione all’Arnaldo, mi capiva e mi voleva bene. 

Resse la parrocchia con la sapienza di un bravo direttore d’orchestra, con dei curati uno diverso dall’altro, ai quali perdonava tutto meno l’insincerità, rispettando la personalità di ciascuno e utilizzando di ciascuno i “carismi” — come oggi diciamo esagerando un pochino – “ad utilitatem Ecclesiae”. 

Qualcuno lo trovava “aulico”, e un poco lo era; e qualcuno lo criticava per la capacità che aveva di cavare soldi dai ricchi, ma non arricchì mai sé stesso, devolvendo il maltolto alla sua chiesa che voleva degna delle tradizioni che l’avevano nobilitata nei secoli, al potenziamento delle “opere” diocesane ed ai poveri. E ce ne fossero di pastori così efficienti e così distaccati!

Noi conoscemmo la saldezza della sua fede, il suo rispetto per la cultura, il coraggio della sua speranza, il suo amore alla Chiesa del Signore.

Ci convinse l’entusiasmo senza esitazioni con cui aderiva al Concilio, al quale fu convocato appena fatto Ausiliare. Qualche volta lo contraddicevo un po’, confidandogli qualche perplessità che me ne veniva – di cui non sono ancora guarito – ma mi sbaragliava con la sua fiducia nello Spirito Santo. 

(Mi domando se qualcuna non la condivide adesso, onesto com’era).

Fu lui che accompagnò il Vescovo a quell’incontro a Milano che decise della mia vita, trovando conferma della fiducia che mi aveva sempre mostrato; a lui devo una solidarietà che mi ha sostenuto, confermato ed incoraggiato all’esercizio di un’arte che trovava così pochi consensi.

Come passavano gli anni, quando andavo ad Alessandria dov’era vescovo a predicare o a salutarlo, fino all’ultimo colloquio nella stanza d’ospedale dov’era venuto a morire, mi confidava la sua delusione che la Chiesa non trovasse il modo di utilizzarmi di più. Ed ero io che lo consolavo.

***

E un’ultima stella mi si accendeva su quella giovinezza lontana, ancora a San Nazaro, ancora benedetta da Dio con il dono di Pastori “secondo il Suo Cuore”.

Il mio indimenticabile Monsignor Fossati, che mi aveva insegnato Storia in seminario e continuò ad esporci in parrocchia la storia della Chiesa, con una fedeltà al vero che non dava spazio ad aggiustamenti o a penombre, nella quale, anche si trattasse di Papi, il tradimento era denunciato con tranquilla intransigenza con termini che sconcertavano gli ascoltatori.

Tale libertà gli veniva dalla limpida intelligenza, dall’onestà senza aggettivi che fondava e “formava” la sua natura di uomo.

Da lui ho avuto confermato quello che dagli altri “miei” preti avevo imparato: che nulla che sia “umano” è mai alieno dal Cristo e nulla che non sia umano ha cittadinanza nel Cristianesimo, che la Verità che rende liberi non è soltanto quella teologica che recitiamo a memoria nel Credo ma quella che dobbiamo dire tutti i giorni.

Da lui ho imparato un severo amore alla Chiesa che lo immunizzava dalle piccole ambizioni che il Concilio non ha guarito, se vedo pretini appena usciti dai seminari cercare soddisfazione in nistole rosse e merletti; che era poi quello di don Primo, di don Stefano e del mio arciprete di Pisogne, che il Papa lo amavano e obbedivano alla Gerarchia, ma non indulgevano a presenzialismi interessati, infischiandosene di eventuali promozioni onorarie con fasce, nappe e croci pettorali annesse.

Da lui ho imparato, senza che mi desse dell’asino come faceva don Pebeiani, il rispetto e l’esercizio della cultura, oggi così disattesa tra noi.

Lui la amava e la perseguiva davvero con umile dedizione, fin dagli anni del seminario, quando spente le luci e obbligatorio dormire, si rifugiava in uno di 0quei gelidi gabinetti che io ho conosciuti e leggeva per ore a quella debole luce, in piedi sulla turca, clandestino e disobbediente.

Una dedizione che lo accompagnò tutta la vita alla quale si rassegnò a rinunciare quando la vita finiva, con il confidato rincrescimento di non poter leggere i libri che non aveva letto o di rileggere i libri che amava.

(Che nessuno sorrida di questa che non era una mania ma una disciplina, tra noi che leggiamo così poco anche in poltrona.)

Da lui ho imparato una modestia, che qualcuno scambiava per scontrosità di carattere, così rigorosa da indurmi più di una volta a dirgli che la ritenevo patologica, consigliandogli di farsi visitare...

Da lui ebbi il dono di una affettuosità inaspettata che offriva, con la discrezione severa che lo caratterizzava, occasioni di brevi confidenze, di semplici tenerezze, delle quali cercava di nascondere il bisogno, ma della cui sottrazione il suo semplice cuore soffriva. 

Consolarlo un poco, allora, faceva bene al mio.

Ho conosciuto la sua povertà, che spartiva senza misura con i poveri che beneficava con mani nascoste come vorrebbe il Signore; la carità che effondeva paternità segrete e sollecitudini attente su quei ragazzini senza amori che affidava a delle mamme inventate e che nutriva, vestiva ed educava perché diventassero uomini. 

Li accompagnava, quei figlioli senza futuro, a visitare negozi di antiquari e a vedere quadri, convinto che un gusto imparato per la Bellezza li avrebbe nutriti e difesi dal freddo dell’anima almeno quanto i pasti e i paltò. 

Ho visto in lui la pena segreta di un Pastore che si sentiva inadeguato e incapace, lui che arricchiva il suo piccolo gregge con il quieto splendore del suo esempio.

***

E altri volti e altri nomi colmano di presenze stellari la stanze ombrose della mia memoria come uno scrigno scintillante di tesori.

Il prevosto di san Faustino, che mi prendeva in giro con la malizia affettuosa di un nonno; lui che predicava magari in dialetto alla “sua gente” – oggi diciamo “al popolo di Dio” — spostandosi con la levità di un armadio su e giù per la chiesa; che trattava i suoi parrocchiani come una arruffata nidiata di pulcini e poteva farlo, perché ne sfamava buona parte in quella parrocchia di poveri in quegli anni di fame; lui che chiamava “ossa di polli” le reliquie intasate dietro gli altari; diffidava degli intellettuali – mai dell’intelligenza – e si infischiava degli ufficiali di Curia. 

Lui la cui fede, come quella degli altri che ho amato, si riduceva alla sostanza essenziale, come sopravvive ancora, “sine glossa”, nel Vangelo.

Avevo letto allora Il diario di un Curato di Campagna, e lo ritrovavo nel Curato di Torcy, che in quel libro riduceva il suo ministero di pastore alla pratica mansione quotidiana di non lasciare senza fieno l’asino e il bue di Betlemme, dignitari del Piccolo Re infreddolito.

Come per il mio don Stefano, anche per lui un’antologia fedele di battute, di commenti e di intemperanze costituirebbe un florilegio che nessun editore per bene oserebbe dare alle stampe per non turbare i delicati maestri della buoneducazione ecclesiastica.

Così perdiamo le perle di una sapienza popolare cristiana per le quali varrebbe la pena di svendere proprietà e buone azioni bancarie.

Don Peppino Tedeschi, fiammeggiante di intelligenza, audace nella libertà, entusiasta del Verbo, che aderiva al presente e sembrava già nel futuro, che mi fu amico, complice e solidale in qualche arrischiata avventura. 

Il don Piero di San Lorenzo che mi voleva bene e mi avrebbe voluto cardinale (quando cominciò a perdersi un poco); anche lui piccolo e un po’ Cucciolo come il mio prete di Piadena, con quelle grandi orecchie arrossate non soltanto dai fuochi interiori; lui che si muoveva come nel suo orto per i tre magici reami del suo Dante; lui che si addormentava alle Congreghe soporifere di certi primi pomeriggi invernali alle quali io venivo da Pisogne in lambretta; e ci piantava lì per finirsi il sonnellino in canonica, facendo sorridere il Vescovo.

Don Vender degli “sfrattati”, che aveva tirato su quelle strampalata parrocchia di barboni di poco di buono e di bambini così periferica alla città e alla strutture ecclesiali. Quella specie di irregolare città inventata dall’Amore dove trovavano cittadinanza i non cittadini, quella Tenda di Dio dove si riparavano gli ultimi.

Lì esercitava un ministero il cui “progetto pastorale” sembrava dettato dal più semplice e più concreto degli Apostoli, che chiamava “religione pura e senza macchia “ l’occuparsi dei poveri, quel San Giacomo del quale portava degnamente il nome.

Lì la sua fede era testimoniata con la forza di uno scandalo da un servizio instancabile alla Misericordia, che lo sfiniva in una sollecitudine senza pace, per dare un tetto, un pasto o una coperta a chi non aveva nulla — e nulla da dare in cambio.

Girava per strade su quella bicicletta da ferrivecchi avventandosi a trapassare cuori congelati, a sgretolare resistenze, a intimare obbligazioni, ad accendere fuochi – e io lo vedevo come quei Giusti del Libro Santo che trascorrono “come scintille nei canneti”.

Mi incantavano la fierezza della sua figura e la severa bellezza del suo volto, che mi ricordava certi ritratti del Rinascimento; e nella mia mente lo associavo sempre all’intelligenza di quell’Umanesimo, per la cultura che sbaragliava nella sua predicazione banalità e pressappochismi; con quella voce indimenticabile. (E mi chiedevo dove trovasse il tempo per leggere in quella sconfortante baracca che era la sua così poco canonica canonica.)

E come amava l’arte, lui così preso dalle “molte cose” di Marta, intuendone con comprensione perfetta la funzione umanizzante e santificante. 

Come mi incoraggiava a perseguirla, chiedendomi un’opera per la sua chiesa, primo — con don Paolo di San Benedetto – dei pochi che si sarebbero poi fidati di me.

Adesso, è una stella anche lui della costellazione che il Signore ha acceso sulla mia giovinezza, alla quale alzo gli occhi da vecchio perché faccia luce sull’ultimo tratto del mio cammino.

Non potevo non amarli.

Renato Laffranchi - info@renatolaffranchi.it