Me lo sono trovato davanti visitando la prima volta il museo che lo ospita e fu subito un riconoscimento del cuore.
C’è un autoritratto di Rembrandt, ad Amsterdam, che mi accolse la prima volta che lo vidi come se mi aspettasse da anni, che mi aggredì come una silenziosa richiesta di attenzione, come con il rimprovero mite di un abbandono, che mi indusse alle lacrime, come se mi sentissi improvvisamente colpevole di non avere mai consolato quel vecchio di non aver mai asciugato una lacrima di quelle che gli rigano il volto come i solchi di un dolore cesellatore, di non aver impedita la spada che lo ferisce.
Come se non lo avessi amato come dovevo in un rapporto di cui la mente non ha memorie ma che il cuore ritrovava come il riaprirsi di un pentimento dimenticato; e gliene chiesi perdono.
Qui invece fu come rivedere un ragazzo conosciuto ed amato – non chiedetemi quando e con quali relazioni. E piansi ancora.
Non credo che noi viviamo molte vite, ma credo che il mistero del tempo abbia ritorni ed anticipazioni, connessioni e scavalcamenti che la ragione è incapace di registrare ma che il cuore in qualche modo conosce.
Quella statua è un ritratto. Quel ragazzo avvolto nel suo mantello non è il kouros nudo ed eroico che i greci componevano da diverse individualità corporali per offrirci l’incanto di una bellezza riassuntiva e perfetta.
È una scultura tombale che dei genitori hanno dedicato ad un figliolo perduto, portata ad Istambul dal cimitero una piccola città della costa Greca oggi turca.
Dovevano essere ricchi: gli eleganti calzari che porta non sono scarpe da poveri; povero è invece il corto mantello che mi pare di semplice lana.
Forse è quello che indossava andando a scuola, tanto più che giurerei che ci tiene sotto i libri, contro il petto.
Scoperte sotto il ginocchio, le gambe mi ricordano quelle dei nostri ragazzi che giocando a palla nei cortili hanno già muscolose, mentre il viso è ancora Infantile.
Infantile è anche il suo, con quei capelli tagliati corti, visto che è presto ancora perché se ne debba curare.
Acerbo e dolcissimo, ripiegato e pensoso, come per una melanconia consapevole e rassegnata, come se nel mistero della morte entrasse così giovane senza spavento, preso per mano da un invisibile Ermes che lo accompagni nell’umbratile regno.
Glielo vediamo fare tante volte, a quel volatile e benevolo dio, quando i Greci ci raccontano nella loro arte il morire.
Ed io so che quel ragazzo in quel regno vi è entrato preso per mano dal Pastore di cui il dio alato era figura e presentimento; ed è lì che lo trovo, con una tenerezza che sembra di duemila anni tardiva, ma gli è contemporanea e presente.
Da quando l'ho incontrato penso a lui come penso ai morti che ho cari, agli amici che ho ormai nella definitiva Città, e vado a trovarlo; e sto un poco con lui - e con i suoi genitori, condolendomi e consolandoli come gli amici che piansero il loro dolore; e li ringrazio di quell’atto estremo di amore, dell'omaggio affettuoso e perfetto che ha portato nella mia vita quel loro ragazzo perduto, rendendomi un poco più umano.