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Elogio della follia

Serie

Riflessioni

Descrizione

Pensieri intorno a un quadro che amo

Una passione, la prima che io ricordi, mi esaltava da bambino fino a mettermi a letto con la febbre; e mi accende ancora da vecchio con lo stesso irresistibile incanto: lo spettacolo del circo.

Parlo dei circhi poveri, come quelli nei quali a volte mi infilavo tornando a casa da scuola, in segrete avventure, assaporando le puzze, spiando nei carrozzoni, corteggiando i pagliacci, mendicando amicizie con gli inservienti, felice di dare una mano a rastrellare la segatura della pista; e soffrendo silenziose malinconie quando quelle corti incantate si spostavano verso reami inaccessibili, dove le seguiva l’immaginazione.

Ne ho visti poi sempre meno,di quei circhi. Ne ricordo uno a Piazza Armerina nel quale una famiglia di quattro o cinque persone copriva tutti i ruoli con rapidi e sommari travestimenti, con la disinvoltura dei vecchi comici dell’Arte; e al serraglio provvedevano un bastardino eccitato e una scimmietta un po’ svogliata; e uno che pareva un colpo di genio di Fellini in una arretrata cittadina brasiliana tanti anni fa che non aveva nemmeno il cagnolino e dove l’insicurezza degli equilibristi era nobilitata da velari di poca spesa ma dai colori così belli che potevano aver ornato degnamente il trono di Salomone in un glorioso passato.

Non ci vado più adesso, non invogliandomi le rutilanti parate dei circhi un po’ Hollywood e un po’ folies parigine dove un’opulenza offensiva non lascia respiro alla poesia e all’innocenza; e mi contento qualche sera di guardare qualche numero circense offerto ai bambini dalla tivù,raro fiore in quell’orto rigurgitante di volgarità e di sciocchezze.

Ma quelli là li custodisce intatti la mia memoria.

Così ogni tanto, tra le immagini che me ne emergono inaspettate, qualche circo mi invita ancora allo spettacolo, e in quei momenti l’incantesimo è perfetto come allora; e disegnando e colorando le mie tavole cerco di raccontarne i sortilegi.

E mi accorgo che i miei clowns sono sempre bambini; forse perché solo i bambini sono adatti alle avventate spericolatezze di quei giochi e forse perché davvero anche il più esperto dei virtuosi non si esibirebbe in un circo se non fosse un po’ bambino.

Questo, fra i miei quadri circensi, è quello che amo di più, e che continua a mancarmi, appeso com’è su una riva del Mississipi in qualche sala della Università di St.Louis dove l’ho venduto per fame, procurandomi più rimorsi che dollari.

L’avevo chiamato Elogio della Follia, un po’ in ossequio al grande saggio che alla follia rese onore e un po’ per una mia propensione verso tutto ciò che pare impossibile, per una tranquilla inclinazione verso l’improbabile, per una divertita diffidenza verso i rigori ultimativi della ragione,quando la ragione si incorona autocrate del conoscibile e misura del reale, facendo a mio avviso un uso irragionevole di sé stessa.

Forse anche per questo, oltre che per la negligenza che ha disonorato i miei anni di scuola, non ho mai preso confidenza con la tavola pitagorica; e resto inetto alle più elementari operazioni di contabilità, senza che l’handicap mi disturbi poi troppo.

Forse per questo sopravvivo un po’ a disagio fra le persone che credono solo nei conteggi – e naturalmente nell’oro - e diffidano della fantasia, hanno in sospetto la poesia e l’inattendibilità degli “artisti”; mentre mi trovo così bene con la gente che vive un po’ follemente, come se la matematica fosse davvero un’opinione e niente fosse davvero impossibile.

Quando dipingevo il mio piccolo clown ospitavo nel mio studio un ragazzo che una crisi improvvisa aveva aggredito, spogliandolo di interessi,di coraggio e di desideri. Mi aiutava un po’ nel lavoro, parlavamo di tutto, ridevamo e ascoltavamo musica.

Quando lo vide finito mi domandò : “È il ritratto di Dio?”

Quella domanda mi fece guardare meglio quel bambino e mi fece pensare. E mi accorsi che forse un ritratto di Dio lo è davvero,anche se nessun prete,e io nemmeno, lo metterebbe sopra un altare.

Nei libri biblici che chiamiamo Sapienziali alcune pagine si aprono su ere immemorabili,su inimmaginabili lontananze,su spazi remoti nei quali il Signore si dedica alla fabbricazione del mondo.

Ce Lo mostrano tutto intento alla Sua fatica,dilatando confini, scavando abissi,sollevando alture, misurando intervalli con invisibili corde, edificando residenze alle acque che stanno al di sopra dei cieli e segrete dimore alle acque terrestri, dettando limiti invalicabili al mare, orbite alle stelle, fissando i giri del sole e i tempi della luna,disegnando costellazioni, aggregando galassie, incidendo col suo compasso circonferenze impeccabili, avvolgendo la terra neonata in morbide fasce di nebbie (come se l’avessero vista da preistoriche navicelle di lontani astronauti), architetto e capomastro del mondo.

In quel grande lavoro non è solo,il Signore.

La Sapienza è con Lui, obbediente come una sposa, solerte come un bravo ragazzo di bottega, operosa e felice.

Perché quel lavoro è una danza, quell’obbedienza è un canto, quella fatica un gioco.

Nel grande racconto settenario della Genesi al tramonto di ogni giorno di lavoro,il Signore è contento. Non dell’arido compiacimento del superbo ma della letizia innocente dell’artefice umile, che la bellezza del manufatto sorprende come un dono di gioia.

La stessa gioia di cui ci parla il vecchio Matisse, quando scrive che talora qualcuno,attraverso le sue mani,compie delle cose che lo riempiono di meraviglia.

(Se imparassimo a leggere nelle confidenze di uomini non immatricolati nelle nostre parrocchie il trasparire di qualche cosa che somiglia i qualche modo alla santità, se santità è abbandonarsi obbedienti a Qualcuno che porta a compimento in noi, misteriosamente, “il volere ed il fare” !) (Filippesi,2,13)

Non si offenderà il Signore se l’ho dipinto come un bambino che gioca nel gran circo del mondo; perché i grandi non giocano, che giocano sono i bambini.

E se essere bambini è la condizione per essere cittadini del Regno, Lui che ne è il Re ne sarà il Re Bambino.

E ad intravedere il Suo Volto,su questa terra, sono solo i bambini, mentre “i loro angeli, nei cieli, Lo vedono sempre.” (Matteo,18,10)

Proprio il Volto che è celato ai servitori della Ragione, indecifrabile ai baroni delle accademie, irreperibile agli “investigatori di questo mondo” (prima ai Corinti,1,20), nascosto ai grandi, sottratto ai superbi e visibile ai piccoli.

In un trasalimento di felice gratitudine Gesù dice ad alta voce a Suo Padre “Ti benedico, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai presuntuosi e la hai rivelate ai piccoli”. (Matteo11,25)

E “piccoli” sono i bambini, e tutti quelli che non si vergognano di essere semplici come i bambini e sono anche un po’ folli, se è vero che quel che per il mondo è follia è la sapienza di Dio e che “la sapienza di questo mondo è stoltezza agli occhi di Dio” (prima ai Corinti 3,19).

E davvero,quando leggo o ascolto dalle cattedre della superbia le attestazioni della inesistenza di Dio,della definita impossibilità che Egli esista – o addirittura mi viene partecipato l’atto della Sua morte - mi viene un poco da ridere; e penso al salmista che canta, anch’esso un po’ divertito :” Colui che è assiso nei cieli ne ride, il Signore si fa beffe di loro.”( Salmo 2,8)

Anch’io del resto,se fossi in Lui – e spero tanto che non mi senta – se mi vedessi cancellato da qualcuno che non mi ha trovato nei libri, non mi ha visto nei suoi cannocchiali, non mi ha riscontrato nelle calcolatrici e non ha nella sua testa un posticino per me, se mi sentissi investigato da tali detectives e indagato da tali procuratori, mi nasconderei dietro una nuvola o dietro una stella.

Il mio bambino è un piccolo clown.

Perché il suo è il gioco di una libertà che nessuna saggezza restringe, nessuna impossibilità ostacola, nessuna “prudenza” dissuade, nessuna inverosimiglianza scoraggia.

Si libra in bilico su un equilibrio impossibile, appoggiato pericolosamente il piccolo dito su una sfera che non gli garantisce nessuna stabilità, precaria com’è sopra un piano inclinato; e azzarda prodezze da giocoliere cinese, contraddicendo gravitazione e buon senso.

È a suo modo una figura di Colui al quale tutto è possibile, che fa sempre tutto quello che vuole, ed è anche una figura dell’uomo che “obbedisce al vangelo“, che prende sul serio l’inverosimile comunicazione che gli è possibile tutto se solo crede e si adegua, visto che Gesù dice a tutti le parole che diceva ad un padre angosciato “Se riesci a credere,tutto è possibile a uno che crede.” (Marco 9 22)

Come dice a tutti le parole che dice ai discepoli sconcertati per un fico seccato perché non aveva i fichi, fuori stagione:

“Se avrete fede e non esiterete non solo farete anche voi quel che io ho fatto al fico, ma se direte a questa montagna strappati di lì e buttati nel mare,succederà.” (Matteo 21,21)

O come a quegli uomini venturosi che Lo hanno visto camminare sulle onde comandare ai venti,folgorarli come un sole sul Tabor, insaporire l’acqua con sapori di vino, sfamare le folle con pochi pani e due pesci, ridare voce ai muti, occhi ai ciechi, la gioia di saltare ai paralizzati e una nuova vita ai morti, arriva a dire con una audacia che è folle davvero :” Chi crede in me,le cose che faccio io le farà anche lui, e ne farà di più grandi.” (Giovanni 14,12)

Sono parole del Signore che noi ministri non commentiamo quasi mai e sulle quali riflettiamo poco, occupati come siamo alla organizzazione della Salvezza, definendo impegni, ipotizzando interventi, moltiplicando convegni, reiterando documenti, proponendo aggiornamenti; e che dovremmo invece offrire agli uomini come un suggerimento di salutare follia, come un invito alla speranza, una provocazione all’audacia.

Se è vero che fra i condannati dalla Gran Voce dal trono timidi e increduli aprono l’esecrabile lista. (Apocalisse, 21,8)

Perché questo è il Vangelo,questa la Novità Bella, questa la liberazione offerta, questo l’abbattimento del carcere questo lo scioglimento delle catene, questo l’Esodo dall’Egitto, questa la cancellazione della Necessità, questa la signoria ridata ad Adamo disonorato.

Una signoria che addirittura offre ai “credenti” una strana immunità dai nemici,che già un Salmo cantava come una incolumità nella furia di una battaglia, quando “ne cadranno mille alla tua destra e diecimila alla tua sinistra” e tu resterai salvo, senza dover temere “il terrore notturno, o la freccia che scocca nel giorno, o la minaccia che serpeggia nelle tenebre o l’assalto del demonio meridiano”; e a chi si fida del Signore diceva: “camminerai sopra un aspide e sopra un basilisco,e calpesterai un leone e un dragone”. (Salmo 90,13)

Quell’immunità figurata nella fresca incolumità garantita ai tre ragazzi nella fornace infiammata e a Daniele adolescente fra i leoni affamati.

Che è poi quello che promette Gesù ai settantadue mandati a far pratica di apostolato :” Ecco: io vi ho dato la facoltà di calpestare serpenti e scorpioni e di vincere tutta la potenza del nemico; e nulla potrà nuocervi.” (Luca 10,19) e che dichiara subito prima di ascendere nei cieli: “Questi sono i segni che accompagneranno quelli che avranno creduto: nel mio nome espelleranno i demoni, parleranno nuove lingue, prenderanno in mano i serpenti, e se berranno un veleno che uccide non farà loro male…” (Marco 18,16)

Promesse che sembrano bugie, viste le tribolazione dei giusti nel mondo, ma che verificano come vere i credenti, garantiti nell’”anima”, nella loro interiore sostanza, affidati e sicuri, incolumi anche se sanguinanti, mai abbandonati o indifesi, vincitori e regali anche quando sono “la spazzatura del mondo”. (prima ai Corinti 4,13)

Poiché chi crede e si affida davvero, è come se vivesse contemporaneamente in due dimensioni, in due ambiti: inserito in questo mondo terrestre retto da leggi, limitato da impedimenti, circoscritto da interdizioni, e nello stesso tempo in un mondo già “altro” che prefigura il futuro, nel quale fruisce di una libertà di movimento attraversando i confini, disattendendo le leggi, giocando un libero gioco di emancipazioni.

Come Gesù che risorto, ancora “qui” e già “altrove” nello stesso tempo, trapassa come un fantasma le porte chiuse e mangia e beve sotto gli occhi increduli degli amici, o come Lui, che ancora vivo della vita mortale cammina sopra le acque.

Anche Pietro, del resto, uscito dalla barca ci cammina, e comincia ad affondare non perché è naturale che affondi, ma solo quando spaventato dalle onde e dal vento non si fida più, e si merita il sorridente rimprovero del Signore: “uomo di poca fede, perché hai dubitato?” (Matteo 14,31)

Poiché affondare è “naturale” nella natura presente, che però non è quella di cui si era compiaciuto il Creatore, ma una natura alterata e devastata, coinvolta”non volens”, nella disobbedienza di Adamo, sottoposta alla Morte con lui; non più il giardino in cui Dio lo aveva incoronato signore ma il campo tragico in cui la gramigna infetta il grano, il deserto degli esodi, la vallata delle lacrime; e il camminare sulle acque non è che il preludio e l’anticipo della Restaurazione di tutte le cose,quando la natura sarà rifatta tutta nuova, come era stata pensata, e le Potenze avverse saranno poste sotto i piedi del Vincitore, come i Nove Archi dei nemici sotto i sandali d’oro dei faraoni.

È una visione del mondo che mi affascina e forse proprio perché sembra tanto improbabile mi convince.

(Fosse anche inventata sarebbe la più bella invenzione degli uomini , ma inventata non è; e che sia il mondo in cui giocano i bambini e che sognano i poeti mi assicura che è vera, poiché i bambini e i poeti vedono con il cuore e ne hanno le infallibili garanzie, proprio là dove i “sapienti” si perdono, i retori ammutoliscono e le verghe dei rabdomanti si confondono.)

Forse anche per questo le cose che dipingo sono possibili solo in quel sogno.

I miei animali sono i pesci e gli uccelli, che vivono in mondi diversi, preclusi agli uomini; e me li immagino spesso gli uni volanti e gli altri nell’acqua, come Picasso nel suo grande pannello dedicato alla pace ha messo un uccellino nella vaschetta dei pesci rossi e un pesciolino nella gabbia del canarino, riecheggiando – non sappiamo nemmeno se consapevolmente – le trasgressioni felici del grande sogno di Isaia, dove una inedita tenerezza mette insieme un agnellino ed un lupo, un’orsa e un cerbiatto e un bambino intimidisce il leone e mette la manina nella buca dell’aspide, nella perfetta incolumità del Regno promesso. (Isaia, al capitolo11)

I miei fiori, non li prendo dal mio piccolo giardino e non hanno riscontro in nessun erbario terrestre.

Le mie città non sono credibili: navigano su caravelle sul vento, posano come astronavi visitatrici su montagne introvabili sulle mappe terrestri, o galleggiano su distese di acque, come poteva permetterselo il Signore, che il Suo mondo “lo ha fondato sui mari e lo ha edificato sui fiumi” (Salmo 24,2); o respirano sommerse in profondità nelle quali sommozzatori bambini possono scendere a raccogliere invisibili perle..

Barchette capovolte, i miei “vaselli” sui quali anch’io vorrei portare in giro gli amici, solcano rotte improbabili sotto mari rovesciati; spedisco a volte navicelle fatte in casa e caricate con un elastico, come quelle che con mio fratello costruivamo da ragazzi, ad esplorare pianeti sconosciuti, in cieli nei quali possono splendere molte lune.

Mi capita di inseguire delle stelle indisciplinate e incuriosite che deviano dalle rotte per vedere un po’ di mondo, regalandosi oziosi andirivieni.

Mi piace perdermi nelle involuzioni di un labirinto, tentando e ritentando come un cieco il sentiero che mi porti in un giardino, alle porte di una città, o ad una minuscola gabbia d’oro dove canta un uccellino; avendo imparato che le vie più affidabili non sono sempre le più facili;ed esercitando pazientemente “il mestiere del labirinto”,che per Eraclito è l’operare di un pittore.

Faccio sfilare nel mio circo, pagliacci senza saperlo, i sette Signori del mondo e gli usurpatori delle Beatitudini, perché il mio pubblico di bambini ne rida e impari a non temerli.

Ogni tanto è come se un angelo di passaggio lasciasse nel mio studio una

traccia di profumo, o mi portasse in dono una stella, e allora cerco di decifrarne il profilo ed il volo, magari aiutandomi con le cadenze di Handel.

E cerco il Volto, tra le nuvole del mio spento cielo interiore: il sorriso della Benevolenza e la malinconia dell’Offesa, la corporale perfezione del Figlio e le ferite dell’Agnello, lo splendore del Trasfigurato o lo spavento dell’abbandono, il dio assassinato e il Figlio d’uomo sul trono.

Racconto la scala sognata da Giacobbe, o l’incendio che rapisce Elia, o le fiamme del roveto o l’ardente colonna che accende il deserto di Cadesh.

E continuo ad immaginare e a dipingere la mia Gerusalemme celeste, la Residenza perfetta, le sue mura le sue porte di diaspro e le cupole di cristallo splendenti; la sola città di cui mi so cittadino, la mia sola nostalgia, la mia saudade inguaribile, la mia sola speranza di pace.

Ma non sono un pittore di chiese. Forse troppo audace da giovane e troppo tradizionale da vecchio, non ho mai convinto né i parroci affezionati alle compiacenti produzioni delle botteghe né tanto meno gli addetti impegnati nella “accoglienza” del “nuovo” a tutti i costi, gli uni e gli altri spesso accomunati da una efficiente inclinazione verso il brutto.

C’è in giro, infatti una frettolosa ottemperanza alla corrente “vulgaritas” che non devasta soltanto l’arte figurativa, ma l’architettura, la musica, il teatro e il teatro d’opera, in cui scorrazzano vandali incompetenti e guastatori ignoranti che manomettono selvaggiamente tesori comuni con il complice plauso di omologati e ben pagati commentatori.

Attitudine che anche alla Chiesa fa danno, non solo nelle sue scelte artistiche ma in ambiti anche più strettamente pertinenti al suo ruolo, quando i rimorsi legittimi di essere stata troppo spesso “murata” – o il timore di sembrare tale agli occhi dei critici – la convincono ad una frettolosa condiscendenza verso le istanze apparenti dei tempi, che la induce a spalancare porte e finestre e tabernacoli; e la mostra sulla scena del mondo come una comparsa sontuosa e obbediente, “configurata alla mentalità di questo secolo” (Romani 12,2); quando invece le gioverebbero una riflessione più attenta al Mistero, una discriminazione più coraggiosa e una più ferma resistenza alle mode e alle mercature.

Quanto a me, mi contento di tenermi assente da rassegne delle quali non vedo la serietà, consapevole senza rimpianti che le occasioni perdute di servire un po’ di più la mia Chiesa non torneranno - e senza inquietarmi a cercarne; contento che ogni tanto un corvo porti anche a me un po’ di pane e un po’ d’acqua; e lavoro un po’ tutti i giorni, come se ciascuno fosse il mio ultimo – e primo – giorno lavorativo.

Quando l’ultimo sarà venuto davvero, domanderò fiduciosamente perdono, mi nasconderò sotto l’ala di un angelo che mi porti a Gerusalemme – se non li avranno troppo offesi i ritratti che ne ho tentato - o chiederò un passaggio dietro il carro di Elia.

Renato Laffranchi - info@renatolaffranchi.it