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Gigi Fasser

  • 2004

Serie

Incontri

Descrizione

Per una mostra postuma delle opere dell'amico Gigi Fasser.

Io Gigi me lo ricordo da bambino, in un’estate di guerra, sfollato dalla città con il papà la mamma e i fratellini sui Ronchi di San Francesco di Paola, dove ero in vacanza dal seminario.

Me li ricordo quei ragazzini sottili, educatissimi e puliti, un po’ incerti nella banda arruffata dei bambini dei roncari cui li avevo aggregati, meno puliti quelli e meno garbati - e sdegnosi dei bambini cittadini, fieri com’erano di una rustica razza montana alle porte della città - i miei piccoli corsari di sfrenate avventure per quelle stradine allora appartate e pedonali, cui si associava come portaordini e battistrada, altrettanto eccitato, un bastardino.

E quella memoria, quell’immagine, si è sempre come sovrapposta nella mia mente al Luigi che cresceva e diventava uomo, vedendolo sempre, come lo avevo visto da bambino e come era rimasto, silenzioso e gentile, delicato e un po’ appartato, nella grazia di un riserbo che diventava il suo stile — e che un po’ mi intimidiva.

E quando sulla parete di qualche casa di amici, o in un quaderno, o una volta in una mostra, vedevo i suoi disegni o qualche acquerello od un quadro, era come mi affacciassi su un patrimonio di ricchezze interiori lasciate appena trapelare oltre il recinto di una modestia che mi incantava come la sua bravura e che mi imbarazzava di violare, anche solo per fargli un complimento.

Poiché la sua bravura era rara, davvero, e mi accendeva ogni volta quell’invidia senza veleni e invece complice e grata che mi commuove quando mi trovo davanti agli artisti più bravi di me, come mi accade per mia fortuna così spesso.

Anche perché quella perizia del suo disegnare, quella perfetta economia dei colori, quella ferma misura del dire, quelle omissioni necessarie e significanti, quegli equilibri irreprensibili, erano solo i riflessi di una sua arte interiore, della sua arte di vivere.

Comunicazioni momentanee e provvisorie, e come casuali, mai esibite, come l’esercizio encomiabile di un mestiere o la presunzione di una docenza, ma lasciate invece trasparire con signorile noncuranza, come i suoi rari sorrisi, dai silenzi di quella consapevole inerme ironia con cui guardava il mondo, guardando noi.

Quell’ironia di cui qualcuno ha scritto che “ci insegna a non prendere sul serio i cattivi e gli stupidi, che senza di lei avremmo la debolezza di odiare”. E Dio voglia che non abbia dovuto, tra quelli, contare anche me.

Un’arte non facile; e me lo confessa senza farmi sorridere quell’immagine che torna frequente, come una breve confidenza, fra le sue cose: di lui sprofondato in una poltrona, che non è la poltrona dei miei pisolini pomeridiani, come per sottrarsi dal mondo distratto o inferiore che non poteva capirlo, riparandosi in un prima del nascere, o piuttosto in un Dopo, dove sapeva di trovare la Liberazione e la Pace.

E allora penso alla virtù difficile della pazienza, alla faticosa ostinazione della perseveranza che il giusto deve esercitare per restare fedele a sé stesso. E al Signore.

Ho sentito dire tante volte che Gigi non ha avuto i riconoscimenti che meritava; ed è vero; perché il successo è come la ricchezza: per meritarselo bisogna amarlo; e quando qualcuno non lo ricerca e non lo riverisce raramente lo premia davanti agli occhi degli uomini.

Ma ha salvato la sua anima.

E se gli parlo adesso con una nuova confidenza e lo ringrazio di quello che mi ha insegnato e gli domando perdono se qualche volta gli fossi mancato, lo vedo ancora bambino come in quell’estate lontana, poiché so che tale è rimasto: educato silenzioso e gentile, e ancora modesto, anche nella Gloria. E anche ironico ancora, se guarda noi.

E me lo vedo circondato da una voliera di piccoli cherubini festosi, eccitati come quei discoli dei Ronchi; e mi pare anche di vedergli saltare intorno un cagnolino.

Perché nelle chiese no, ma in paradiso i cagnolini ci vanno.

Renato Laffranchi - info@renatolaffranchi.it